Pubblicato su "Il Consulente Re" on-line di Febbraio 2011
Diceva Henry Ford che “c’è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti”. Se ciò è vero, l’informatizzazione della procedura di regolarizzazione dei lavoratori extracomunitari immigrati in Italia non rappresenta ancora un esempio di progresso compiuto.
Il 31 gennaio e il 2 e 3 febbraio scorsi, si sono svolti i cosiddetti click day, le giornate in cui – in ossequio alle previsioni dell’ultimo Decreto flussi approvato dal Consiglio dei Ministri – i cittadini extracomunitari che hanno trovato lavoro nel nostro Paese potevano inviare, per via telematica agli uffici del Viminale, le richieste per regolarizzare la propria permanenza in Italia.
In sostanza, collegandosi al sito del Ministero dell’Interno, i datori di lavoro hanno avuto la possibilità di seguire una procedura guidata finalizzata alla messa in regola dei propri dipendenti stranieri. Il click day non è che la versione computerizzata delle estenuanti nottate che sino al 2006 i lavoratori immigrati hanno trascorso in fila davanti ai nostri uffici postali; prima, infatti, la procedura di regolarizzazione imponeva l’invio in forma cartacea, tramite posta ordinaria, della documentazione che oggi può viaggiare sul web. Vantaggio non da poco, si dirà, tuttavia la dematerializzazione di un problema – e persino di un dramma personale – non basta a risolverlo. I numeri del click day descrivono una situazione tragica, uno stato di fatto a dir poco allarmante, la cui criticità affiora solo episodicamente. In queste giornate ci si ricorda di un’ingiustizia pressoché insanabile, che emerge non appena si compia lo sforzo di combatterla: una fatica abbastanza frustrante.
300 mila domande in 4 ore, le prime 100 mila in un minuto. E le “quote” erano solo 52.080
Sono circa 300 mila le domande arrivate al Viminale entro mezzogiorno del 31 gennaio per il primo click day, riservato a 52.080 lavoratori provenienti da Paesi che hanno sottoscritto con l’Italia accordi di cooperazione. Nei primi secondi, dopo il via libera delle 8, sono state ricevute oltre 100 mila domande. La velocità si rivelerà fondamentale, perché le graduatorie seguiranno l’ordine cronologico di ricezione delle richieste, e vista la sproporzione tra “quote” disponibili ed istanze inoltrate, potrà essere regolarizzato soltanto un lavoratore su sei.
Il 2 e 3 febbraio la stessa situazione si è riproposta per le rimanenti “quote” – circa 46 mila – riservate a colf e badanti provenienti da nazioni che non hanno sottoscritto accordi di cooperazione con il nostro Paese (30 mila), e infine alla conversione di permessi provvisori per studio e lavoro stagionale.
L’invio delle domande on-line si rivela una forma di discriminazione
La nota dolente di questo meccanismo di regolarizzazione non consiste soltanto nella casualità del metodo di selezione delle domande, fondato sul mero criterio cronologico, ma soprattutto nella sperequazione che importa a danno di coloro che non sanno o non possono usufruire della necessaria strumentazione informatica. Non a caso nella gara di velocità hanno trionfato coloro che si sono potuti avvalere dell’aiuto dei propri datori di lavoro – peraltro spesso organizzati in patronati e associazioni – o che si sono rivolti ad appositi consulenti. Per tutti gli altri la minima incertezza nel riempire i complicati moduli on-line, un’interruzione nella connessione alla rete, o più spesso le difficoltà nel collegarsi al portale del Ministero a causa dell’inevitabile sovraffollamento, comporteranno l’impossibilità di continuare a lavorare nel nostro Paese, oppure il mancato ricongiungimento con un proprio familiare, o ancora, forse più spesso, il prolungamento di un periodo di vita incerta e clandestina.
Criticità di fondo delle nostre politiche sull’immigrazione
Si potrà anche eccepire che in definitiva, essendo limitata la capacità dell’Italia di ricevere lavoratoti extracomunitari – in particolar modo in questo periodo, a causa della crisi economica – una severa selezione si rivela tanto dolorosa quanto necessaria. Ma quest’argomento non basta a giustificare i vizi di fondo della nostra politica sull’immigrazione: in primo luogo in Italia un Decreto flussi si faceva attendere dal 2007, con l’inevitabile boom di immigrati in attesa di regolarizzazione; inoltre la decisione di non individuare criteri di selezione dei lavoratori da regolarizzare, rimettendo la scelta alla casualità del sistema informatico, è apparsa a molti soluzione improvvida, giudicata tra l’altro una forma di abdicazione della politica dal suo ruolo, foriera d’inevitabili conseguenze negative, in termini di ingiustizia e di accrescimento delle disuguaglianze, all’interno di una categoria sociale, quella degli immigrati, già vessata da avversità intrinseche alla propria condizione giuridica.
“Flussi” invertiti: la regolarizzazione di lavoratori già clandestinamente presenti in Italia
In quest’ottica si disvela per di più un’ipocrisia latente, che si cela già nel nome attribuito al provvedimento di pianificazione delle regolarizzazioni. L’espressione “Decreto flussi” rinvia infatti all’idea di una moltitudine di extracomunitari in movimento, che come la corrente di un fiume che si getti in mare, verrebbero accolti nel nostro Paese dopo aver ottenuto, a distanza, un contratto di lavoro in territorio italiano. Ben più statica si rivela la realtà dei fatti: il Decreto flussi, come tutti sanno, non fa che regolarizzare la situazione lavorativa di immigrati clandestini già presenti e impiegati in Italia.
Ma ciò non basta. Le peripezie che attendono quanti riceveranno l’OK sull’istanza inviata al Ministero dell’Interno finiranno, quasi beffardamente, per capovolgere il significato dell’espressione “Decreto flussi”. In realtà il primo “moto” prodotto dal Decreto procederà proprio dal nostro Paese in direzione delle nazioni extracomunitarie. I lavoratori ammessi alla procedura di regolarizzazione saranno infatti costretti ad uscire dall’Italia, con un nulla osta, per recarsi nel proprio Paese d’origine; laggiù dovranno ottenere dalle nostre autorità diplomatiche un visto d’ingresso per motivi di lavoro, col quale potranno finalmente rientrare in Italia, onde beneficiare del provvedimento di regolarizzazione; e tutto ciò, naturalmente, a patto che le autorità preposte chiudano un occhio al momento del rilascio del primo nulla osta, necessario all’immigrato per tornare nella propria nazione: in quel momento, infatti, egli dovrà in qualche modo autodenunciarsi come clandestino, e rischierebbe, a rigore, di essere definitivamente segnalato ed espulso.
In definitiva, in virtù del Decreto flussi di quest’anno i più fortunati – uno su sei, è bene ricordarlo, senza conteggiare coloro che non sono riusciti affatto ad inoltrare l’istanza – potranno tra qualche mese imbarcarsi in un’odissea dall’esito incerto, che li condurrà al riconoscimento giuridico di uno stato di fatto che spesso si protrae da anni, tra incertezze, diritti negati e inevitabili sopraffazioni.
Ritardi nelle procedure: ancora in corso le regolarizzazioni del Decreto flussi 2007
Tutto ciò mentre risultano ancora in corso i rilasci di buona parte dei nulla osta richiesti nel 2007, e mentre le prefetture stesse lamentano la difficoltà di evadere il carico di domande relative al Decreto flussi di quattro anni fa.
La materia dell’immigrazione, nella sua globalità, richiede un organico intervento di riforma. La normativa attualmente vigente non è apprezzata né dai datori di lavoro né dai lavoratori immigrati nel nostro Paese. L’incapacità di gestire la complessità e le dimensioni numeriche del problema alimenta sacche di clandestinità e di emarginazione, all’interno delle quali non solo si moltiplicano le spinte criminogene, ma vengono spesso calpestai i più elementari diritti della persona.
Marco Giorgetti