per il 150° anniversario dell'Unità d'Italia
L’ITALIANITA’, TRA SCETTICISMO E INDOLENZA
L’animo italiano non si presta all’adorazione di feticci. Il nostro popolo non si culla di certo tra gli allori di vittorie fittizie imbellettate a guisa di trionfi. La storia ci ha insegnato che le apoteosi nazionaliste non si manifestano quasi mai in epoche beate, contrassegnate da un’estesa fruizione di benessere, libertà e democrazia; abbiamo piuttosto imparato a guardare con sospetto alle tentazioni autocelebrative, a considerare le feste nazionali come canonizzazioni della ragione dei vincitori a danno, se non a beffa, degli interessi dei vinti. Forse i motivi di questo sospetto, di questa diffidenza, risiedono proprio nelle nostre origini, perché a nessuno sfugge che ad un certo pragmatismo – che pure non ci manca – si mescola, nella nostra natura, una sorta di disincanto di fondo, di stampo spiccatamente scettico, che sembra esserci stato consegnato direttamente dai nostri padri greci.
Mi sia concesso un esempio un po’ banale, che però rivela ben più di quanto non manifesti a prima vista: quando nel 2006 vincemmo i mondiali di calcio, l’euforia per il trionfo iridato durò giusto lo spazio di una notte, mentre già all’indomani del grande successo di Berlino fiorirono le polemiche e le dietrologie sulle “reali” dinamiche della vittoria italiana.
Si disse che la fortuna ci aveva aiutato ben al di là delle speranze più ottimistiche, si fece rilevare che eravamo stati favoriti dal tabellone, che avevamo superato gli ottavi di finale contro l’Australia grazie ad un rigore dubbio, concesso generosamente dall’arbitro in “zona Cesarini”. Poi le analisi critiche si radicalizzarono, secondo quell’andamento iperbolico che conduce spesso i commenti sportivi ad assumere, un po’ goffamente, le sembianze gravi di speculazioni politico-filosofiche: e si disse che in fondo ci eravamo soltanto difesi per un intero mondiale, “all’italiana”, che avevamo davvero giocato soltanto gli scampoli di una sola partita – i tempi supplementari della semifinale contro la Germania – finendo per vincere più per consunzione che non per reali meriti o per determinazione espressa in campo. Infine la vittoria contro la Francia ai rigori, con le consuete ombre che questo metodo di attribuzione del bottino finale lascia sempre nell’animo dei puristi, o dei maliziosi. Alcuni commentatori, infine, increduli della nostra vittoria, si lasciarono andare ad una valutazione globale dal sapore vagamente “esistenzialista”: avevamo vinto in reazione agli scandali giudiziari – la cosiddetta calciopoli – che avevano travolto il mondo del calcio di casa nostra nella stagione precedente all’estate del mondiale; l’animo sornione del calciatore italiano medio, insomma, pungolato nell’orgoglio dal vocio diffamatorio che dava per morto e sepolto il nostro sport nazionale, avrebbe conosciuto un moto d’orgoglio altrimenti inusitato, capace di condurci, è il caso di dirlo, in capo al mondo. Ancora una volta, quindi, lo stereotipo dell’italiano inetto e indolente, che alza la testa solo in presenza di circostanze straordinarie, altrimenti più incline all’ozio, o per lo meno ad una condotta più fiacca e sparagnina.
Ma se tutto ciò emerge di fronte ad un semplice successo sportivo, che si dirà di quel grande trionfo che fu secondo alcuni – per altri, come è ovvio, giusto l’opposto – la nostra storia risorgimentale? Bravi come siamo a piangerci addosso quando tutto va male, e abili, come visto, a dividerci quando vinciamo, in che modo abbiamo metabolizzato le vicende di quella grande affermazione, per lo meno identitaria, rappresentata dalla storia della nostra unificazione nazionale? Al riguardo, i battibecchi degli ultimi tempi circa l’opportunità di festeggiare il giorno del centocinquantesimo dell’unità d’Italia parlano da soli.
Ma come mai tanto accanimento, e da più parti, nell’osteggiare le celebrazioni?
IL REVISIONISMO E IL SUO STRUMENTALE UTILIZZO POLITICO
Il revisionismo sul Risorgimento italiano ha una storia lunga e “gloriosa”, almeno altrettanto lunga e “gloriosa” quanto quella che ci separa dagli eventi risorgimentali. L'approccio revisionista riposa sull'assunto che la storiografia non consideri correttamente le ragioni dei vinti, omettendo alcuni aspetti degli accadimenti storici. Si tratta, come si vede, di un punto di vista pernicioso, che rischia di allignare sin troppo bene nell’animo di chi, già per natura, si mostra incline alla divisione, alla diatriba, allo spaccare il capello in quattro pur di non lasciarsi andare – e nemmeno per un giorno in 150 anni – a quella parzialità necessariamente un po’ ingenua, eppure tanto benefica, di cui si alimenta per forza di cose ogni sano patriottismo.
I revisionisti di ogni epoca tendono a valutare in modo negativo, rispetto alla storiografia prevalente, personaggi-chiave dell'unità nazionale italiana, quali Camillo Benso di Cavour, Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II di Savoia. Alcuni di essi, innestandosi nel dibattito sulle cause della cosiddetta questione meridionale, sostengono che il Risorgimento sarebbe stato una vera e propria opera di colonizzazione, seguita da una politica di conquista centralizzatrice – la famosa “piemontesizzazione” – a causa della quale il Mezzogiorno italiano sarebbe caduto in uno stato d'arretratezza tuttora evidente. Altri, invece, cavalcano ancora la cosiddetta questione romana, ed enfatizzano i profili critici dei noti avvenimenti del 1870, sottolineando l’illiceità giuridica dell’invasione di uno Stato Sovrano e la riprovevolezza etica dell’aggressione alle prerogative pontificie.
Le idee revisioniste iniziarono a diffondersi già negli anni immediatamente successivi agli eventi che condussero il Regno di Sardegna a trasformarsi in Regno d'Italia, ancor prima della nascita di un vero e proprio dibattito storiografico in materia. I primi dubbi sui reali moventi della politica estera di Casa Savoia furono sollevati dallo stesso Giuseppe Mazzini, uno dei principali teorici ed artefici dell'unificazione italiana. Mazzini ipotizzò, sul suo giornale "Italia del Popolo", che il governo di Cavour non fosse affatto interessato all’ideale di un'Italia unita, ma più prosaicamente al disegno politico di allargare i confini dello stato sabaudo. All’indomani dell’unificazione, Mazzini tornò ad attaccare, a tal proposito, il governo della nuova nazione: « Non c'è chi possa comprendere quanto mi senta infelice quando vedo aumentare di anno in anno, sotto un governo materialista e immorale, la corruzione, lo scetticismo sui vantaggi dell'Unità, il dissesto finanziario; e svanire tutto l'avvenire dell'Italia, tutta l'Italia ideale ».
Il revisionismo sul risorgimento conobbe un'evidente radicalizzazione a metà del Novecento, dopo la caduta sia della monarchia sabauda che del fascismo, dai quali l’epopea unitaria era considerata un mito intangibile. A tutela di questo mito, ogni volta che un’alta personalità politica moriva, si procedeva ad un attento esame delle sue carte e della corrispondenza privata con il re, in modo da eliminare, e segretare nella Biblioteca Reale, qualunque documento compromettente. Secondo questo metodo, la corrispondenza di Cavour fu massicciamente emendata dalla feroce ostilità nei confronti di Garibaldi e dei democratici, nonché dalle frasi profondamente offensive nei confronti degli italiani. Del resto non è più un mistero per nessuno che Cavour fosse uomo politico accorto e lungimirante, di strettissima osservanza sabauda, ma di sentimenti essenzialmente anticattolici e di gusto aristocratico e filo-francese, di certo non un patriota italiano, né un accorato osservatore dei problemi del nostro meridione.
E tuttavia non si capisce perché si pretenda di rinvenire la controversa virtù del patriottismo nell’animo di una classe di governanti che si trovò, all’epoca, a capo di una popolazione informe e variegata, contraddistinta dai più microscopici particolarismi, animata da interessi campanilistici, e che si risvegliò da un giorno all’altro riunita sotto il vessillo oscuro di una nazione della quale solo il 2,5% dei nuovi “italiani” parlava la lingua ufficiale, la nostra lingua; mentre Cavour, ovviamente, parlava in francese.
Non si capisce proprio perché mai la limitata convinzione patriottica di chi a suo tempo pose le prime pietre di una nuova nazione, dovrebbe giustificare, oggi, il nostro scarso trasporto nel celebrare la fondazione della casa comune nella quale siamo nati e viviamo: singolare senso della storia quello per cui il senno di poi finisce per legittimare e riproporre, anziché correggere, qualche miopia degli avi.
Tanto più che, a dirla tutta, non furono all’epoca affatto convinti della trovata unitaria nemmeno i nuovi italiani. L’avanzata dell’esercito sabaudo procedé in più parti d’“Italia” tra resistenze strenue da parte delle popolazioni locali – e non mancarono stragi ed eccidi per persuadere i resistenti sulle buone ragioni del nuovo nazionalismo – mentre i famosi plebisciti, attraverso cui si ottenne il consenso degli occupati circa il nuovo regime politico instaurato da quelli che erano considerati semplici invasori, non rappresentarono certo un’adesione di massa al nuovo stato di cose, tanto che ne scaturirono – ad onta del prestato consenso – fenomeni di eversione ben radicati e longevi, quali il brigantaggio e alcune forme di criminalità organizzata.
Massimo D'Azeglio |
Ecco come si espresse su quei plebisciti Massimo D’Azeglio, Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna: « A Napoli, noi abbiamo altresì cacciato il sovrano per stabilire un governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono, e sembra che ciò non basti per contenere il Regno, sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti o non briganti, niuno vuol saperne. Ma si dirà: e il suffragio universale? Io non so nulla di suffragio, ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni e che al di là sono necessari. Dunque vi fu qualche errore e bisogna cambiare atti e principi. Bisogna sapere dai Napoletani un'altra volta per tutto se ci vogliono, sì o no. Capisco che gli italiani hanno il diritto di fare la guerra a coloro che volessero mantenere i tedeschi in Italia, ma agli italiani che, restando italiani, non volessero unirsi a noi, credo che non abbiamo il diritto di dare archibugiate, salvo si concedesse ora, per tagliare corto, che noi adottiamo il principio nel cui nome Bomba (Ferdinando) bombardava Palermo, Messina, ecc. Credo bene che in generale non si pensa in questo modo, ma siccome io non intendo rinunciare al diritto di ragionare, dico ciò che penso».
Il Meridione, in genere, non fu trattato con gran riguardo dai nuovi governanti sabaudi: il fenomeno del brigantaggio conobbe una repressione ferocissima, tanto che persino Nino Bixio, uno dei comandanti della spedizione dei Mille e protagonista del discusso episodio della strage di Bronte, denunciò questi metodi in un discorso alla camera il 28 Aprile 1863: « Si è inaugurato nel Mezzogiorno d'Italia un sistema di sangue. E il Governo, cominciando da Ricasoli e venendo sino al ministero Rattazzi, ha sempre lasciato esercitare questo sistema ». I meridionali non furono neppure accolti a braccia aperte nel nuovo parlamento nazionale; ecco che cosa scrive Cavour, in una lettera del dicembre 1860, raccomandando al ministro di grazia e giustizia Giovanni Battista Cassinis di adoperarsi affinché il numero di napoletani in parlamento fosse il più esiguo possibile: « Mi restringo a pregarlo a fare ogni sforzo onde si acceleri la formazione delle circoscrizioni elettorali, vedendo modo di darci il minor numero di deputati napoletani possibile. Non conviene nasconderci che avremo nel Parlamento a lottare contro un'opposizione formidabile ».
LE RAGIONI DI UNA FESTA
La storia dell’unificazione italiana, insomma, ben lungi dall’apparire un glorioso cammino di riunione fraterna all’interno di un orizzonte di valori e aspirazioni condivise, si rivela essere piuttosto l’esito di un pragmatico disegno di liberazione del nostro territorio nazionale dall’oppressione straniera. Forse si può affermare che, salvo rare eccezioni, nessuno al tempo dell’unità gradisse la soggezione all’Austria o le ingerenze francesi, ma allo stesso tempo in pochissimi auspicavano che la liberazione corrispondesse ad una nuova subalternità al regno sabaudo. Ma stupirsi di una simile difficoltà, dar troppo peso a questa ritrosia da parte delle popolazioni in qualche modo liberate, significa non comprendere le difficoltà che può incontrare un popolo a farsi nazione.
La riottosità di molti uomini dell’epoca risorgimentale ad abbracciare il nuovo progetto di un’Italia libera e unita, tra l’altro, non è di certo argomento che militi a favore delle ragioni di quanti, oggi, sembrano voler mettere in discussione il fondamento politico, sociologico ed ideale di una grande nazione che compie 150 anni.
Le tesi sulle quali si fondano le teorie revisioniste appaiono tutte fondate sulla sola constatazione dell’arretratezza economica del sud rispetto al nord, il che, evidentemente, non solo non prova nulla, ma oltretutto svilisce il dibattito sulle ragioni ideali della spinta unitaria, precipitando ogni valutazione politica al livello un po’ triviale della considerazione materiale e del calcolo economico.
La spinta all’unificazione del nostro Paese ha conosciuto un respiro ben più ampio nel petto di coloro che si fecero davvero ideatori e maestri dell’Italia unita. L’orizzonte angusto di quanti oggi pretendono di utilizzare la questione meridionale come emblema di uno scandalo e grimaldello per un’eventuale scissione, non è degno dell’eroismo e della lungimiranza di quanti l’Italia l’hanno fatta o conservata a prezzo del proprio sangue. La miopia di chi strumentalizza una nazione – quand’anche questa fosse ancora soltanto un ideale – per fini politici vili e caduchi, andrebbe quanto meno bollata col marchio infamante del cinismo, cioè del vizio mentale di chi, come suggerisce Oscar Wilde, considera di ogni bene anzitutto il prezzo, e solo secondariamente il valore.
Coloro che invece considerano l’Italia un grande valore, festeggiano oggi i 150 anni della sua unificazione; costoro conoscono bene, dell’Italia, i limiti – anche storici – e ne comprendono le criticità – che spesso di quella storia costituiscono l’inevitabile retaggio – ma affermano di volersi spendere per colmare lo iato tra la realtà e il loro ideale. A quanti invece pretendono che non si festeggi, o che si festeggi in sordina, in ragione del predicato fallimento di quell’idea, infrantasi sul muro robusto della realtà dei fatti, dei dati economici, dei problemi sociali, a costoro diremo che la speranza è degna di una celebrazione più solenne di qualsiasi realtà, perché il valore dell’Italia Unita non merita di pagare il fio delle nostre inadeguatezze. Marco Giorgetti
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