All’origine dei dolori d’amore
della mia generazione c’è una scomposizione della personalità. Perdonatemi il tono
assertivo nel ragionare di temi sociologici: non amo né questi né quello, ma è
lo stile imposto dai mezzi tecnologici, fluidi, sfuggenti.
La riflessione mi è
suggerita da recenti conversazioni sul tema, intrattenute con ragazze
dolcissime e infelici. È forse la peggior condanna di questa classe di ferro di
fine anni ’70 - inizio ’80: noi, gli ultimi ad aver studiato Manzoni senza il
pensiero demoralizzante di Moccia, senza la povertà di Fabio Volo. Queste
amiche ricordano di certo l’amore di Didone. Loro, come me, hanno apprezzato di
più il dramma di Cirano che non le storie a lieto fine: costruzione di un gusto a rischio, che sta lì lì per scivolare nel cinismo.
È un’abitudine pervicace, dura da
sradicare, tipica di chi, da quando sta al mondo, si sente ripetere che “c’è la
crisi”. Il crollo delle certezze, leit
motiv della nostra storia, breve e infelice, è causa di una crisi ancor più
grave e profonda di quella occupazionale: la trasfigurazione dell’amore nel suo
opposto. È frantumato l’amore di queste donne, scomposto in relazioni diverse e
tutte, per qualche verso, monche: un uomo per la passione, un altro uomo per le
confidenze, un altro per la complicità e un altro ancora per la spensieratezza.
Diversi compagni e nessun amante, per carità; ma neppure un amore. La colpa è
nostra, di noi uomini, troppo insicuri per giocare fino in fondo il nostro
ruolo.
Per un adulto la sfida dell’amore
consiste in uno sforzo teatrale, e perciò tragico, di finzione (direi "d'infingimento", ma già mi date del vecchio a ogni piè sospinto): farsi certezza
al di là delle proprie paure; divenire se stessi, nonostante il terrore radicale
del riconoscimento di sé, grazie allo sguardo rassicurante dell’altro. Ma
abbiamo troppa paura, questo è il nostro dramma. Ci hanno indebolito all’eccesso,
brandendo lo spauracchio di timori dopo tutto infondati. C’è sempre stata la
crisi, certo, ma alla fin fine siamo sopravvissuti: ben pasciuti, mediamente
viziati, immaturi e parecchio infelici.
Le donne ne pagano il maggior
prezzo, le nostre donne senza uomini accanto. Le donne in crisi della nostra
generazione da sempre in crisi, con cento amici e neanche un uomo, con mille
storie e neppure un amore. Le guardiamo e ci vediamo allo specchio: sole loro,
solissimi noi; non c’è speranza per chi non sa riversare nell’altro il tormento
delle proprie paure, non c’è identità per chi non sa lasciare ad altri il
compito impossibile di confermare il proprio essere nell’amore. C’è un
riconoscimento del sé più profondo, e più arduo ad attuarsi, della semplice
costruzione dell’io: l’abbandonarsi a uno solo. Quasi una follia dell’identità.
È questo lo slancio che manca
alla mia generazione; a me soprattutto, prima di chiunque altro: c’è chi non
trova il coraggio e chi l’ha perduto, come me, affogando troppo presto l’amore
nel dolore.
Vi parlo di poli in conflitto
della battaglia consueta e benedetta alla quale, purtroppo, molti di noi non
prendono più parte. L’ho sentito di recente, a fior di pelle, parlando d’amore
con amiche improbabili: un dialogo, un'iperbole esemplificativa.
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