Il reperire, tra le tante fonti disponibili, una definizione di bioetica si rivela compito tutto sommato abbastanza agevole. Le diverse enunciazioni dello statuto “scientifico” della bioetica sembrano a prima vista divergere tra loro soltanto rispetto ad alcuni particolari trascurabili, tanto che si rischia di formarsi il convincimento che questa nuova “scienza” possieda, quanto meno, una notevole chiarezza di fondo in relazione al contenuto e all’estensione del proprio oggetto. Invece accade poi che, avendo preso le mosse da tanta apparente linearità epistemologica, ci si ritrova alla fine costretti a riferire della bioetica utilizzando – come sono stato costretto a fare – la parola “scienza” tra virgolette.
La bioetica, sospinta dal progresso scientifico e tecnologico nel campo biomedico e genetico, è indotta a scendere alle radici della vita. Così i suoi quesiti e le questioni che si trova ad affrontare inducono ogni uomo ad interrogarsi sull’esistenza o meno di un modello naturale di famiglia, sui possibili contorni di uno statuto ontologico del soggetto umano non ancora nato, embrione o feto che sia, sull'illiceità o meno dell'aborto, dell'eutanasia e degli interventi genetici a scopo terapeutico.
Perciò, come accade per ogni problema umano che implichi una questione identitaria – tale per cui l’uomo stesso che si trova alla ricerca di una definizione finisce per esserne a sua volta definito – il dilemma sullo statuto della bioetica si presenta come quel “vuoto spazio invisibile” di cui riferisce Robert Musil nel suo “Der mann ohne Eigenschaften” (“L’uomo senza qualità”) affrontando, non a caso, proprio il tema dell’identità.
Mantenendo ben presente questa difficoltà di fondo, e per non sentirci costretti da una simile complessità ad una definitiva sospensione del giudizio, troppo simile a quell’epoché un po’ arrendevole di matrice scettica, passiamo ora ad analizzare i contenuti della bioetica, per poi tornare a riflettere a partire da quelli, ma allora induttivamente, sulla questione definitoria.
Ebbene, la bioetica si propone di studiare sistematicamente la condotta umana nell’ambito delle scienze della vita e della cura della salute – in soldoni nel campo della biologia, con tutte le sue ramificazioni, e della medicina – esaminandola alla luce dei valori e dei principi morali. L’enunciazione, appena riportata, dei confini che contrassegnano l’oggetto materiale e formale della bioetica sarebbe senz’altro sufficiente ad integrare anche una soddisfacente definizione della stessa, se solo però esistesse tra gli studiosi un qualche accordo almeno riguardo il significato del termine “vita”: quanto poi alla possibile moltiplicazione dei differenti punti di vista intorno al concetto di “valore morale”, lascio alla fantasia del lettore la più sfrenata libertà d’immaginazione.
Insomma, tra i diversi studiosi si riducono i punti di convergenza e crescono esponenzialmente i contrasti; in definitiva lo sguardo di chi voglia attraversare analiticamente il labirinto della bioetica per ricavarne uno statuto unitario di scienza, si ritrova scomposto e deviato, come un fascio di luce ad opera d’un prisma, da una miriade di difficoltà, impedimenti, distinzioni e precisazioni via via più capillari e particolaristiche ad opera di una schiera disomogenea di addetti ai lavori i quali, tra l’altro, non appartengono neanche ad un unico settore disciplinare. Osservando, infatti, il panorama di filosofi, giuristi, teologi, biologi, medici e altre categorie professionali che si occupano di bioetica, la patente disomogeneità nell’approccio scientifico che le caratterizza finisce per suggerirne una classificazione che sia basata, come extrema ratio, non sui caratteri epistemologici delle tesi che esprimono, ma sui loro differenti presupposti ideologici: si distingue in tal modo tra una bioetica laica ed una bioetica personalista; e sarà il caso di accennare alle caratteristiche che contraddistinguono queste due differenti impostazioni, se desideriamo scorgere, finalmente, non addirittura che cosa sia la bioetica, ma almeno che cosa questa non sia o non dovrebbe mai essere.
La bioetica laica, sulla base dell’evidenza che non esiste un’etica universalmente condivisa, stabilisce, quale presupposto necessario e perciò incontestabile, che non se ne possa creare una "assoluta": pertanto afferma esclusivamente la possibilità di un’etica procedurale, fondata cioè sul libero accordo tra i soggetti coinvolti. Il relativismo etico proprio della nostra cultura è così pienamente accolto e riaffermato, e la morale della bioetica viene assunta quale ulteriore forma di “contrattualismo”. La principale conseguenza di un simile atteggiamento non può che consistere nella ridefinizione del valore della vita alla luce di una valutazione caso per caso della sua “qualità”; il che avviene in primo luogo in rapporto al grado di sviluppo biologico della vita stessa, per cui si distinguerà la “vita umana personale” dalla “vita umana non-personale”, introducendo una delicatissima differenziazione tra “essere umano” e “persona”. In secondo luogo si giudicherà la vita in rapporto alle condizioni cliniche dei singoli individui, per cui si tenderà a distinguere tra vite degne e vite non-degne di essere vissute.
Circa le possibili criticità delle posizioni della bioetica laica or ora presentate, mi permetto di osservare soltanto che il rifiuto di un concetto fondamentale di “natura umana” – rifiuto implicito nell’asserzione che un’etica universale non possa esistere – rende poi a mio modo di vedere arbitrario segnare un discrimine tra umano e non umano e tra fisiologia e patologia: se non è dato sapere che cosa sia una vita umana, come si può stabilire poi che cosa sia una persona, e inoltre in quali casi questa non si possa più considerare tale in ragione di eventi successivi e accidentali? E ciò a tacer del fatto che resterebbe ancora da chiedersi se sia lecito individuare alcunché di “patologico” o “inumano”, ad esempio, nell’ineluttabile disfacimento della vita che osserviamo… in rerum natura.
Passando all’impostazione personalista, si deve sottolineare che questa muove dall’assunto che la bioetica altro non sia che una parte dell’etica: l’uomo, in quanto essere libero e intelligente, dovrebbe sempre rispondere di fronte al “tribunale della propria coscienza” del contenuto morale del proprio agire; di conseguenza ogni atto compiuto con piena avvertenza e deliberato consenso risulterebbe per ciò solo soggetto alle leggi morali. La difficoltà sta, semmai, nell’individuare quali siano queste regole morali che s’impongono all’essere umano, sia come singolo, sia all’interno di una cultura che, pur essendo di fatto relativista, non necessariamente lo rimarrà in eterno. Come si avverte immediatamente, si tratta qui di un’impostazione pienamente compatibile con la fede cristiana, ma l’orizzonte morale di riferimento non è preso in considerazione dai personalisti da un punto di vista meramente teologico: essi affermano, all’opposto, che per fondare i diritti inalienabili della persona umana sia sufficiente riconoscerne filosoficamente la dignità in senso forte. Il valore cui essi fanno riferimento è la dignità ontologica della persona umana, la quale verrebbe in rilievo per ciò che l’uomo è, e non per ciò che fa o che può fare. In quest’ottica ogni persona andrebbe quindi rispettata in modo assoluto, a prescindere dal suo stadio di sviluppo e dalla “qualità” della sua vita fisica.
Questo secondo approccio ai problemi della bioetica corre il rischio di risultare un po’ apodittico nell’affermare la generale vigenza di un codice morale unitario, in grado di disciplinare ogni azione umana, e può risultare conseguentemente persino dogmatico nell’esposizione delle specifiche leggi etiche che andrebbero osservate nel campo della vita. Esso conserva ciononostante il pregio indiscutibile di ribadire decisamente l’esistenza di un confine invalicabile al di là del quale i segreti della vita non sono passibili di alcuna manipolazione da parte dell’uomo, così non potendo neanche essere ridefiniti per via procedurale da una volontà comune, benché in ipotesi persino unanime, tesa a reinterpretarli onde sconvolgerli, per così dire, politicamente.
Lungi da me, in conclusione, prendere le parti dell’una o dell’altra impostazione. Credo che entrambe suggeriscano qualcosa: la prima essenzialmente la necessità di una lunga gestazione sociale e culturale, benché forse un po’ relativista nell’ispirazione, di ogni decisione che rivesta una certa rilevanza in campo bioetico. Alcuni infatti sostengono che un sentimento di onnipotenza abbia obnubilato le menti degli attuali studiosi di genetica e biologia, inducendoli ad un riduzionismo in tutto simile al meccanicismo che i fisici post-newtoniani pretesero, sulle ali di un’assai simile spavalderia scientista, d’imporre all’uomo, finendo per considerare l’organismo umano alla stregua di una macchina regolata dalle leggi della fisica. Ebbene, a questi biologi e genetisti la bioetica positivista sembra rivolgere, non senza fondamento, gli stessi graffianti ammonimenti che Friedrich Dürenmatt rivolgeva ai fisici del suo tempo: ”Il contenuto della fisica riguarda solo i fisici, i suoi effetti riguardano tutti. Ciò che riguarda tutti può essere risolto soltanto da tutti”. Questo mi sembra in sostanza il contenuto della teorica proceduralista che ispira la metodologia proposta dalla bioetica positivista.
La bioetica personalista, dal canto suo, mi pare possa contribuire ad un necessario approfondimento della discussione sullo statuto della bioetica nella misura in cui suggerisce ai diversi studiosi coinvolti, non già delle soluzioni belle e pronte, quanto piuttosto una prospettiva alternativa nell'affrontare le diverse questioni. Essa consiglia, in ultima analisi, di diffidare da quelle risposte che, carenti di un’adeguata valutazione della complessità dei temi della bioetica e prive di una doverosa ricerca sul senso dell'essere e della persona, tendano a saltare precipitosamente a conclusioni normative, le quali pagheranno così inevitabilmente lo scotto dell’oblio della differenza tra mistero e problema.
Sarà emersa da queste poche righe l’attuale impossibilità di presentare una definizione organica e coerente di bioetica, specie a fronte delle numerose correnti che in qualche modo ne propongono le più diverse enunciazioni. Alla domanda “che cos’è la bioetica” non ci resta che rispondere, non senza un velo di mal celata ironia, con le parole di Eugenio Montale: “Non chiederci la parola”; ci potrebbe capitare di stupirci della rinnovata serietà con la quale saremmo allora costretti ad accogliere gli ultimi due versi della stessa poesia, calzanti e suggestivi più di ogni altra elucubrazione rispetto ai dubbi della bioetica: “[…] Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.
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