Pubblicato su "Il Consulente Re" on-line, Novembre 2009
Nel 1609, a Padova, Galileo Galilei per la prima volta puntava al cielo il suo cannocchiale, dando inizio all’avventura dell’astronomia moderna e additando, in qualche modo, un nuovo orizzonte per le scienze sperimentali. Quattrocento anni dopo, significativamente, si celebra l’Anno Internazionale dell’Astronomia (IYA2009), iniziativa approvata dall’ONU e promossa in più di 100 Paesi, sotto l’alto patronato dell’UNESCO in collaborazione con l’Unione Astronomica Internazionale (IAU).
Già da un primo sguardo alla dichiarazione d’intenti diffusa da UNESCO e IAU risultano chiarissimi gli scopi del progetto: “Attraverso l'osservazione del cielo, si invitano i cittadini di tutto il mondo, e soprattutto i giovani, a riscoprire il proprio posto nell'Universo, il senso profondo dello stupore e della scoperta, le ricadute e l'importanza della scienza sulla vita quotidiana e sugli equilibri globali della società”.
Numerosissimi gli eventi attraverso i quali l’Anno Internazionale dell’Astronomia viene celebrato in Italia: dall’organizzazione di convegni presso le principali sedi universitarie alla programmazione di campagne informative presso le scuole, dalla convocazione di tavole rotonde animate dai più affermati studiosi del settore presso le più belle piazze italiane, fino alla possibilità offerta al pubblico di cimentarsi nell’osservazione del cielo durante una delle tante “Notti Galileiane”, che si sono svolte nel corso dell’estate. Ma l’appuntamento forse più rilevante è rappresentato dalla mostra ASTRUM2009, organizzata dall’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica) in collaborazione con la Specola Vaticana: si tratta di un’esposizione degli strumenti storici dell’astronomia italiana, tra i quali il telescopio originale di Galileo, visitabile dal 15 ottobre 2009 al 16 gennaio 2010 nell’area espositiva predisposta presso la Sala polifunzionale dei Musei Vaticani.
Una simile sinergia tra l’INAF e la Specola Vaticana potrebbe risultare sorprendente agli occhi del grande pubblico, abituato più alle continue rievocazioni del celebrato “scontro” tra Galileo e la Chiesa che non ad un’immagine della Sede Pontificia come centro propulsore di un impegno plurisecolare nello studio del cielo. E invece la Specola Vaticana è un istituto di ricerca scientifica direttamente dipendente dalla Santa Sede, ed è considerata uno degli istituti astronomici più antichi al mondo, risalendo la sua fondazione al 1578, anno di edificazione, per volontà di Papa Gregorio XIII, della Torre dei Venti, osservatorio affidato ai Gesuiti del Collegio Romano.
In realtà la Chiesa si è resa nei secoli protagonista della fondazione e dello sviluppo dei principali centri di ricerca astronomica di tutta Italia, e ciò non solo dal punto di vista dell’apporto scientifico, ma anche sul piano del contributo finanziario. Basti rammentare il caso dell’antica Specola Universitaria di Bologna, finanziata dalla Santa Sede già ai tempi di Papa Clemente XI, o l’esempio dell’Osservatorio di Brera, a Milano, affidato ai Gesuiti sin dal 1760. Nel meridione, l’Osservatorio di Palermo risulta diretto nei suoi primi anni di vita da Giuseppe Piazzi, un religioso poi richiamato anche a Napoli per sovrintendere alla costruzione dell’Osservatorio di Capodimonte. A Padova l’Osservatorio prese vita ancora grazie all’apporto del seminario, mentre Giovanni Battista Beccaria, dei Padri Scolopi, è considerato il fondatore della prima Specola di Torino, poi affidata ad un Oratoriano ai tempi dell’insediamento nell’Osservatorio di Palazzo Madama. A Firenze ritroviamo alla direzione della Specola, nei suoi primi anni di attività, personalità ecclesiastiche come Domenico De Vecchi e Cosimo Del Nacca, pure quest’ultimo allievo dei Padri Scolopi. Infine a Roma la già citata Torre dei Venti è solo la prima delle specole sostenute dalla Chiesa: accanto ad essa si devono menzionare la Torre di Calandrelli e un nuovo Osservatorio costruito sulla cupola della Chiesa di S.Ignazio, nonché l’Osservatorio del Campidoglio fondato da Papa Leone XII. Impossibile, da ultimo, non ricordare Padre Angelo Secchi (1818 – 1878), astronomo gesuita, fondatore della spettroscopia astronomica e direttore dell'Osservatorio Vaticano, al quale va il merito di aver ordinato per primo le stelle in classi spettrali: i suoi trattati sono considerati non a caso i capisaldi della fisica e dell’astronomia dell’’800.
Un contributo tanto vivace e ininterrotto, da parte della Chiesa, nel campo delle scienze astronomiche, si spiega già con la semplice constatazione della naturale tendenza dell’uomo a pensare al cielo come al luogo della trascendenza divina. Non c’è espressione religiosa dell’antichità, presso qualunque popolo e ad ogni latitudine, che mostri indifferenza verso i fenomeni astronomici direttamente osservabili: si pensi alla collocazione dei monumenti nell’area cultuale di Stonehenge o alla disposizione delle piramidi d’Egitto, o ancora alla posizione delle piramidi gradonate delle popolazioni precolombiane d’America; gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ciò che resta invariabile è la sensibilità manifestata da tutti i popoli, già a livello di religiosità naturale, per i diversi fenomeni celesti: dal moto degli astri e dei pianeti sino agli eventi meteorologici, tutto quel che accade nel cielo è sempre percepito come la più esplicita rivelazione di potenze ignote e ancestrali, talvolta benevole e provvidenti, tal altra catastrofiche e soverchianti.
Così il corso della vita umana e degli eventi naturali veniva percepito come riflesso degli avvenimenti astronomici: la posizione delle stelle, le fasi lunari o l’inclinazione dei raggi del sole scandivano di volta in volta i ritmi del lavoro agricolo, il tempo della penuria o i giorni dell’abbondanza e quindi della festa. Presso numerose popolazioni non tardarono ad instaurarsi addirittura culti solari e lunari, a conferma della sacralità attribuita ai fenomeni del cielo. Lo stesso Mircea Eliade, nel suo celebre “Trattato di Storia delle Religioni” afferma: “Quel che non ammette alcun dubbio è la quasi-universalità della credenza in un Essere divino celeste creatore dell’Universo e garante della fecondità della terra (grazie alle piogge che versa)”.
Una certa astrolatria, cioè il culto o l’adorazione verso i pianeti visibili ad occhio nudo e le stelle più luminose, inevitabilmente si diffuse presso la maggior parte dei popoli antichi, quali i Sumeri, gli Assiri, i Babilonesi, gli Egizi ed altri ancora.
Anche una semplice riflessione sull’uso moderno delle parole – analisi sempre significativa dal punto di vista dello svelamento dei più atavici meccanismi psicologici – ci può restituire ancora oggi la sensazione di una particolare indulgenza metonimica verso l’uso indiscriminato del termine “cielo”: nella maggior parte delle lingue moderne, infatti, lo si usa tanto per denotare puntualmente la volta celeste, con i suoi astri e i suoi pianeti, quanto per rinviare analogicamente alla pura trascendenza del paradiso e dell’ultramondano in genere. Soltanto la lingua inglese distingue rigorosamente fra “sky” e “heaven”, attribuendo a ciascun vocabolo la dovuta pregnanza semantica.
Nella tradizione ebraico-cristiana, pur non mancando i riferimenti al cielo inteso ancora nella sua capacità evocativa del divino, i due piani vengono precisamente distinti e tenuti separati, si giunge anzi ad affermare esplicitamente la differenza, anche ontologica, fra cielo inteso come parte del creato, ed oltre-cielo, descritto al contrario come meta astratta delle anime che si salveranno e dimora di Dio Creatore.
Mentre da una parte anche nel Nuovo Testamento la nascita di Gesù s’inserisce, dal punto di vista genealogico ed anche astronomico, nel solco della tradizione ebraica – tanto che i Re Magi potranno giungere dinanzi al Figlio di Dio seguendo la scia della stella cometa (cfr. Mt 2, 1-12) e Zaccaria potrà affermare: “Verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge” (Lc 1,78) – dall’altra, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, è risolutamente affermata la signoria di Dio su ogni fenomeno naturale, compresi quelli astronomici; addirittura Gesù esplicitamente dichiara: “I cieli e la terra passeranno ma le mie parole non passeranno” (cfr. Mt 5,18; Mc 13,31; Lc 21,33). E l’indicazione evangelica risulta sufficientemente perspicua da essere recepita in tutta la sua profondità metafisica dallo sguardo acutissimo di San Tommaso d’Aquino, che nella Summa Theologiae asserisce: “Il trono di Dio si dice che è in cielo, non perché questo lo contiene, ma perché ne è contenuto” (S.T. III, q.57, a.4, ad primum).
La fede nella sovranità del Signore sul cosmo e la consapevolezza della condivisione da parte dell’uomo dello stesso Logos di Dio, che trova il suo sigillo nell’annuncio della filiazione divina dell’umanità, consente al cristiano un approccio del tutto nuovo non solo ai misteri del cielo, ma a tutti gli eventi naturali. Per questo, sul piano scientifico e culturale, la civiltà cristiana ha rappresentato e rappresenta, al contrario di quel che a volte capita di ascoltare, un habitat privilegiato per lo stimolo e lo sviluppo della ricerca scientifica in senso lato; non a caso gli stessi studi teologici hanno conosciuto con l’avvento del cristianesimo un approfondimento, e per così dire una spregiudicatezza, del tutto estranei alle altre tradizioni religiose.
Nel corso della storia cristiana le finestre, le lunette e gli oculi degli eremi celtici, orientati in base alla posizione del sole, continueranno a scandire le ore della preghiera; così come coloratissimi rosoni proietteranno sempre sui pavimenti delle cattedrali gotiche la luce meridiana, indicando i giorni e i mesi dell’anno, o illuminando le immagini dei santi impresse sulle pareti in corrispondenza del ricorrere delle principali feste liturgiche: senza alcuna eccezione i luoghi sacri del cristianesimo manterranno la tradizione antica di concepire il tempio come simbolo e rappresentazione del cosmo; eppure tutto ciò non produrrà mai il rischio di uno scivolamento verso sorpassate forme di astralismo, poiché Dio è “Signore del cielo e della terra” (cfr. Mt 11,25).
Alla luce, è il caso di dirlo, di quanto esposto, si spiega pure il favore della Chiesa per l’astronomia nella sua specificità: essa infatti, nel ciclico ripetersi degli eventi celesti, fornisce un primo indispensabile strumento di predicibilità dei fenomeni, l’opposto del caos, e quindi fondamento della scienza sperimentale; inoltre consegna alla filosofia i principali elementi di riflessione per la formazione delle diverse concezioni dell’universo e del posto che al suo interno è stato riservato all’uomo.
Con l’Anno Internazionale dell’Astronomia, quindi, la Chiesa può celebrare tra l’altro l’avvenuta riconciliazione, nell’alveo della tradizione cristiana, del conflitto apparente tra scienza e fede: l’inesistenza di una simile opposizione è d’altro canto testimoniata, nella prospettiva di uno scienziato eppure col medesimo risultato, dalle considerazioni di Carl von Weizsäcker, fisico e filosofo tedesco scomparso soltanto due anni fa: “L'esperienza vissuta in una notte come quella non può essere resa a parole [...]. Nella gloria indicibile del cielo stellato era presente in qualche modo Dio. Ma al contempo io sapevo che le stelle non sono altro che sfere di gas, composte di atomi, che soddisfano le leggi della fisica” (Über Religion und Naturwissenschaft, Friburgo 1992, pag. 17).
Il comune denominatore costituito dallo stupore, motore e molla tanto della ricerca astronomica quanto della contemplazione religiosa del cielo, sembra pertanto rinviare all’idea centrale di una sostanziale unitarietà dell’esperienza estetica, della fatica scientifica e dello slancio religioso. All’interno di una sensibilità umana debitamente educata alla libertà e all’onestà intellettuale non si danno quindi schizofrenie in grado di generare indissolubili conflitti interiori, e così neanche esecrabili scontri ideologici tra opinioni differenti, ma semmai soltanto divergenze passibili di discussione e di conciliazione. Questo rappresenta, in ultima analisi, la collaborazione fra INAF e Specola Vaticana nelle celebrazioni dell’Anno Internazionale dell’Astronomia. Ed è in fondo questo quel che ci suggerisce anche Kant con le indimenticabili parole impresse non a caso sul suo epitaffio: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupi di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”.
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