"C'è la bellezza e ci sono gli umiliati.
Qualunque difficoltà presenti l'impresa, non vorrei mai essere infedele né ai secondi né alla prima" A.C.

lunedì 24 settembre 2012

A te, che mi sfuggi quasi quanto me



All’origine dei dolori d’amore della mia generazione c’è una scomposizione della personalità. Perdonatemi il tono assertivo nel ragionare di temi sociologici: non amo né questi né quello, ma è lo stile imposto dai mezzi tecnologici, fluidi, sfuggenti. 
La riflessione mi è suggerita da recenti conversazioni sul tema, intrattenute con ragazze dolcissime e infelici. È forse la peggior condanna di questa classe di ferro di fine anni ’70 - inizio ’80: noi, gli ultimi ad aver studiato Manzoni senza il pensiero demoralizzante di Moccia, senza la povertà di Fabio Volo. Queste amiche ricordano di certo l’amore di Didone. Loro, come me, hanno apprezzato di più il dramma di Cirano che non le storie a lieto fine: costruzione di un gusto a rischio, che sta lì lì per scivolare nel cinismo.
È un’abitudine pervicace, dura da sradicare, tipica di chi, da quando sta al mondo, si sente ripetere che “c’è la crisi”. Il crollo delle certezze, leit motiv della nostra storia, breve e infelice, è causa di una crisi ancor più grave e profonda di quella occupazionale: la trasfigurazione dell’amore nel suo opposto. È frantumato l’amore di queste donne, scomposto in relazioni diverse e tutte, per qualche verso, monche: un uomo per la passione, un altro uomo per le confidenze, un altro per la complicità e un altro ancora per la spensieratezza. Diversi compagni e nessun amante, per carità; ma neppure un amore. La colpa è nostra, di noi uomini, troppo insicuri per giocare fino in fondo il nostro ruolo.
Per un adulto la sfida dell’amore consiste in uno sforzo teatrale, e perciò tragico, di finzione (direi "d'infingimento", ma già mi date del vecchio a ogni piè sospinto): farsi certezza al di là delle proprie paure; divenire se stessi, nonostante il terrore radicale del riconoscimento di sé, grazie allo sguardo rassicurante dell’altro. Ma abbiamo troppa paura, questo è il nostro dramma. Ci hanno indebolito all’eccesso, brandendo lo spauracchio di timori dopo tutto infondati. C’è sempre stata la crisi, certo, ma alla fin fine siamo sopravvissuti: ben pasciuti, mediamente viziati, immaturi e parecchio infelici.

giovedì 17 maggio 2012

Il tempo di morire: sopravvivere al suicidio


Non fosse per l'invenzione simbolica dei fisici, il presente non esisterebbe. Passiamo metà del nostro tempo a rimpiangere il passato, l'altra metà a sperare nel futuro. Non ci sarebbe motivo di concepire la nozione di 'presente' se quest'attimo che già mi sfugge non servisse a ricordarmi che l'ho scelta, la condizione del funambolo.
Sospeso tra le responsabilità di ieri, per le quali non mi assolvo, e le speranze riposte nel domani - colpa ulteriore, che non mi è imputata giacché sono, rispetto al futuro, incapace di intendere, benché non mi astenga dal volere - mi sono accorto dell'inganno del presente dinanzi all'attuale diluvio di morti per suicidio.
Farla finita è azione da filosofi, il perpetuarsi del presente suona disumano alla mente del poveruomo. Non ripianare i debiti, non riconquistare l'amore, non rialzarsi dalla depressione: tutte condizioni para-noiche, che assomigliano all'eterno ritorno dell'uguale, figura dotta di gusto decadente. Nella ciclicità, piuttosto, spera l'agricoltore nella propria saggia credulità: la sua vita non è che un'attesa senza fine, in barba al mistero del presente.
Non fosse per l'invenzione simbolica degli economisti, non avrebbe ragion d'essere neppure la nozione di debito, proprio come accade per il concetto di ‘presente’ e l’inganno della ‘proprietà’.
Il soggetto dell'esistere, la vittima del terrore di morire, l'uomo, questo uomo. Egli solo può trovarsi alle prese con l'attimo che sfugge, con questo scorrere allegorico, in nulla differente dal flusso di cassa che si colma e tracima senza riuscir più a coprire le spese.
Non abbiamo il presente, cioè non possediamo noi stessi. Speriamo in un futuro incerto, nel quale saremo tuttavia protagonisti di una storia contraddistinta dal sigillo del riscatto, e scommettiamo perciò su un'identità immaginaria. Ecco come muore l'uomo, di obesità, rigonfio di un sé che non esiste. Un giorno ti guardi allo specchio e il panico ti assale: che il presente possa ripetersi, per sempre, come si mostra qui, qui ed ora? Ti riconosci e ti uccidi.
Viviamo di nulla e moriamo per poco. Beato chi saldo nel presente, che pure non c'è, si fa beffa dell'identità che lo imprigiona, del sé che lo attanaglia: così è di colui che ama un umano soltanto, di chi perde la propria ombra donandola ad un'altra ombra soltanto. Non è studio di quantità, lavoro di pesa e di misura, il gioco paradossale della resurrezione: sopravvive chi, naufrago, abbraccia nell'altro naufrago la sua stessa perdizione, chi spalanca gli occhi nelle tenebre del nulla, chi assedia la speranza, vana, con l'esercito rumoroso dell'allegria.

martedì 8 maggio 2012

Toshar: il paradosso dello straniero

Ho fatto le pulizie da solo, finché ho potuto. Quando ho iniziato a lavorare anche di notte, assonnato e molle come la polvere che si accumulava ovunque, ho capito che per toglierne un po' era ora di farmi aiutare: l'asma non perdona e gli acari sono suoi alleati.
Mi piaceva, ogni tanto, fare le pulizie. Mi aiutava a tornare alla realtà. Milano è frenetica e psichedelica, e le mie occupazioni non inducono serenità: pc, telefono e centinaia di mail al giorno ti fanno perdere il contatto con la vita; la polvere ti ricorda chi sei.
Sono fiero di me quando passo lo straccio, quando spolvero a dovere o lucido lo specchio. Quelle dei servi sono attività da signori, occupazioni da uomini autentici, capaci ancora di confrontarsi con la fatica e di lottare contro la stizza: c'è un'attitudine dei vetri ad esser sporchi che si può combattere solo con l'autoironia, qualità degli uomini vincenti. C'è poi la pazienza: virtù di chi, consapevole di non saper aspettare in eterno, attende contro se stesso che il pavimento si asciughi, prima di camminarci.
Mi sono arreso all'evidenza quando ho iniziato a mangiare giusto ogni tanto, quando il lavoro me lo consentiva. Allora ho capito che valeva la pena di farmi aiutare nelle pulizie. E sempre allora ho conosciuto Toshar, il ragazzino cingalese. Me lo ha presentato una vicina, convinta che Toshar fosse manodopera, forza lavoro di sua proprietà. Anche il prezzo mi fece, la tariffa oraria del suo uomo, del bambino cresciutello convinto sempre di esser graziato da chi lo sfrutta.
C'è voluto un mese per spiegare a Toshar che i soldi erano i suoi: solo dopo qualche settimana scoprii che li dava alla mia vicina, la sua aguzzina, il caporale. Gli sembrava naturale, a Toschar, non tenere nulla per sé, abituato com'era a non avere mai niente. Mi disse che aveva paura del marito della signora, che non gli sembrava furbo ribellarsi, che in fondo le cose erano sempre andate così: nei mesi precedenti aveva ricevuto dai suoi schiavisti 500 Euro per due mesi di lavoro a tempo pieno, né troppo né poco nella mente di Toshar.
I buoni hanno di grandioso l'elasticità mentale: come si abituano a lavorare per 30 centesimi l'ora, così capiscono al volo l'assurdo, se uno sta lì un attimo a spiegarlo. Toshar capì subito la sua stessa follia. Credo che diventammo amici quando si accorse, un attimo prima di vergognarsi della sua ingenuità, che io mi vergognavo di essere in fondo più simile alla signora che non a lui. Mi vergognavo pure di essere italiano, per me la cosa più assurda. Ma come si può essere fieri di un popolo che accoglie così uno come Toshar? Dovreste vederlo, il ritratto dell'innocenza, una faccia simile al protagonista del Milionario, un affronto all'abitudine alla sopraffazione e una provocazione alla legge del più forte. Siamo diventati complici. Gli ho detto di non preoccuparsi.
Incontrando la mia vicina, le ho spiegato che le cose sarebbero cambiate; provò a dirmi banalità del tipo "io ci pago le tasse", neanche si riferisse a un mezzo agricolo. Le suggerii di evitare problemi, e quando tentò di riferirsi a suo marito, il sedicente datore di lavoro di Toschar, le consigliai di proteggerlo dal mio sdegno.
Toshar viene da me solo una volta a settimana, non ci fa niente con il lavoro che gli offro. Però ha scoperto tutto d'un colpo il concetto di libertà. S'è trovato diversi lavoretti, cammina a testa alta. Mi vuole bene.
Nelle sere di mezza stagione, quando la nebbia scende presto, oppure il sole non tramonta più e il polline riempie l'aria di un'improbabile neve tiepida, aspetto a casa Toshar riflettendo sulla nostra condizione. Lui libero senza certezze, io prigioniero dei miei schemi fondati su sicurezze ridondanti. Per ragioni opposte, entrambi abbiamo paura. E siamo soli in questa città che corre troppo.
Restiamo a cihiacchierare a lungo quando ha finito il suo servizio, ho sempre paura che percepisca se stesso come un mio subalterno: certi vizi mentali sono difficili da sradicare. A me fa piacere quando lui viene, mi ricorda l'unico atto eroico della mi vita, la difesa sconsiderata del solo debole nel quale mi sia capitato di imbattermi, perché io dei deboli ho paura e sono solito evitarli. La debolezza mi spaventa, ho il terrore di divenire debole a mia volta, abituato come sono ad essere annoverato tra i forti; e poi sono consapevole della mia vicinanza emotiva alla disarmante autenticità di chi debole c'è nato, un'ipoteca sul mio successo, che spesso mi impedisce di essere lo squalo che sogno, e al contempo temo, di diventare.
Toshar mi aiuta a risparmiare tempo da destinare ancora al mio lavoro. Quindi è il mio primo collaboratore: un giorno scriviamo un comunicato, un altro giorno rispondiamo alle ultime e-mail della giornata. Solo che lui non lo sa, convinto sempre di star lì a passare lo straccio.
Ed io? Io chiacchiero con lui fuori di me e lotto contro il lui che è dentro di me. E' così che si fa con i deboli e con chi ci rende deboli: con i poveri e con gli amici.

venerdì 10 febbraio 2012

Blizzard, chi era costui?..

Non vedete il contrasto che c’è tra il suo cadere, silenziosa, e lo strepito della tv? Quando si parla di neve, “ovattato” è l’aggettivo del silenzio: come se “silenzio”, da solo, non bastasse. I giornalisti gridano dagli altoparlanti di apparecchi improbabili, lanciano allarmi a caratteri cubitali dal pezzo di giornale che crepitando emana il primo tepore dal fondo del camino: “Nella morsa del gelo, il week end più lungo”. Stona pure l’inglesismo. 
Direi che verranno un sabato e una domenica, due giorni di neve per riflettere al caldo sul paradosso della velocità. I “disagi causati dall’interruzione dei servizi a rete” è lessico burocratico che non comprendo, soprattutto linguaggio che non mi scalda. Se invece di andare me ne sto, mi godo le virtù del servizio che funziona: il vicino che spala all’alba sul vialetto che è pure il mio, il papà che spegne il termosifone e aggiunge un ciocco nel camino, perché quando nevica è più bello così. 
Mio nonno, in fine settimana come questi, m’insegnava a montare le catene da neve, a spalare con ordine e a cuocere quanto basta le patate sotto al coppo. Ozio apparente di una domenica perturbata, l’azione dei giorni a venire stava tutta nella pazienza di gesti antichi: affilare con la lima ramponi e piccozze, ricucire fibbie di ghette e zaini usurati e ingrassare scarponi col panno di lino. Indimenticabile l’odore del grasso raffinato, che si mescola alle resine di quercia bruciata nel camino. Il sigillo del pazientare stava nell’insegnamento definitivo, di tenere gli scarponi ad asciugare lontano dalla fiamma: omaggio persino simbolico alle virtù dell’attesa, del conversare senza tema e della condivisone dei ricordi. Nonno parlava con la pensosità di chi narra nello sforzo di ricostruire, di valutare, e di sfuggire sempre alla tentazione di dar giudizi: dal terremoto del ’15 nella Marsica alla guerra in Abissinia, dal conflitto mondiale alla politica dell’Italia repubblicana. Ad ascoltarlo, ti accorgevi della fatica di alimentare sempre un dubbio, per lasciare in sospeso la sentenza, aperto il racconto a più morali. Vedevi l’atteggiamento di un uomo che s’era sporcato le mani con la storia, che non dice “ma io” e nemmeno “mai più”. Erano uomini d’altri tempi: se c’era da spostare un peso enorme si chiedevano come fare, e non chi l’avrebbe fatto, o peggio chi l’avesse lasciato là dov’era. Soprattutto, mio nonno aveva chiaro che ogni fardello si sarebbe rimosso “come s’è sempre fatto”, motto di serenità capace di farti spostare le montagne. E poi quelli come lui avevano buongusto: uno stile fatto a volte anche d’indignazione, ma mai di odio, sentimento troppo scomposto. Lo vedevi dalle considerazioni sulla condotta della Germania nazista, un’assunzione di corresponsabilità matura, lontana anni luce da quell’editoriale di Sallusti di qualche giorno fa. Quel titolo goffo “A noi Schettino a voi Auschwitz”, nonno l’avrebbe sistemato con cura sul fondo del camino, con la leggerezza distaccata di chi, punendo un bimbo, ride al contempo anche di sé. Che classe gli uomini statici d’un tempo, giravano i canali della tv al massimo un paio di volte, poi spegnevano rassegnati, senza indulgenza verso alcun reality show. Mai ascoltato dalla bocca di mio nonno un commento sdegnato sul palinsesto televisivo, e così pure il corsivo altezzoso di Aldo Grasso alimenta un poco la fiamma.
Si usciva a piedi, sorridenti, si rientrava spesso zuppi e sempre felici. Si stava col naso attaccato alla finestra appannata, a guardare i fiocchi scendere lentamente; si parlava per ore o si sonnecchiava insieme, tra uno schiocco di scintille e un riflesso di fiamma contro lo schermo nero del televisore spento. Se qualcuno avesse parlato di Blizzard, di morsa del gelo o colpo di coda dell’inverno, ci saremmo guardati sgomenti, senza capire. 
C’era soprattutto il senso della realtà, quella comprensione delle cose che dovrebbe suggerire agli uomini di dar valore al risvolto positivo degli eventi, i quali col loro semplice accadere si impongono alla coscienza come dati di fatto: è così per la neve e per il sole, ma anche per il terremoto, per l’esserci delle montagne immobili, e del mare; e per l’inconveniente invincibile dell’ammalarsi o del morire.
C’era rispetto per la realtà. Un riguardo dignitoso, che consisteva nell’accoglierla comunque come dono. Compostezza, dignità e rispetto sembrano parole del secolo scorso, contro le quali lampeggiano oggi luci esotiche ed esterofile – che diremmo infatti ‘al led’: servizi a rete interrotti, disagi in città, scontro fra sindaco e protezione civile, la "rete" posta un tweet irriverente verso il primo cittadino, fioccano le battute su Facebook
Ribellatevi a quest’imbarbarimento efficientista: statevene a casa. Godetevi il fuoco. Non cucinate sulla fiamma cibi preconfezionati. Lasciate che i bambini giochino con la neve, concedete almeno a loro quest’innocenza gioiosa, disarmata e tutt’altro che ingenua. Spegnete la TV. Chiacchierate. State in silenzio.

La pioggia precipita rapida, percola veloce verso la falda e si disperde; la neve arriva lenta e si deposita, penetra nel minimo anfratto. E’ l’acqua che berremo in tempo di siccità: una metafora monitoria.                          

martedì 31 gennaio 2012

In morte di Oscar Luigi Scalfaro

Oscar Luigi Scalfaro. Non mi è stato simpatico proprio mai. Non ho amato i suoi ribaltoni, la legge sulla par condicio e il suo stile democristiano: dalla campagna contro il divorzio a certi episodi che ne delineano il profilo di cattolico un po’ bigotto. 
Non mi piace nemmeno la sua biografia, il suo esser stato prima magistrato, sotto il fascismo, poi partigiano e comunque, sempre, anticomunista per ragioni religiose; il che non gli ha impedito, ad ogni modo, di passare alla storia come uomo di sinistra. Tutto ciò la dice lunga sulle sue capacità di sfuggire sempre agli schemi, di sottrarsi alle definizioni: e questo, secondo me, è un gran difetto per un politico.
Tuttavia, ritengo che si possa dire tutto il peggio di un personaggio pubblico, ma non quando questi muore. Lasciate che vi confidi che cosa penso, ad esempio, di quanto è stato scritto intorno a Scalfaro su “Il Giornale” in occasione della sua morte: sono state critiche e giudizi volgari e squallidi.
Un politico si può biasimare e criticare finché è in vita, per tentare di correggerne i difetti e sottrargli consenso; si può riprovare e accusare pure a qualche anno dalla morte, per rispolverare la verità sul suo conto e consegnarla alla storia. Ma quando un politico muore ha il diritto di esser riguardato, almeno per qualche giorno, semplicemente come uomo. La nostra società rischia altrimenti di dimenticare che cosa sia la pietas, la stessa virtù che ci consiglia di rendere onore ai defunti, e di non vilipendere enti inanimati, eppure quasi sacri, come i cadaveri e la bandiera; e anche, sia detto per inciso, di non abbandonare i nostri padri negli ospizi.
Perciò, mentre un coro triviale di giudici impietosi si leva ad infierire sulle spoglie di Scalfaro, io che pure sono sempre stato critico nei suoi confronti, lo ricordo così: se ne stava in piedi, in fondo alla navata di sinistra, alla messa delle dodici e mezza presso la Chiesa del Gesù. Tutti i giorni. Non so che fede avesse, ma non posso dimenticare il suo contegno dignitoso nel prendere la Comunione, mai per primo né per ultimo, quasi per non dare nell’occhio. Un istante dopo la benedizione, abbandonava la cripta delle celebrazioni, e si rifugiava nella cappella del Santissimo per qualche istante di ringraziamento. Lo incrociavo spesso nella navata centrale, mentre entrambi ci dirigevamo verso l’uscita; mi salutava per primo, particolare che a volte quasi mi commuoveva, ammonendomi sulla necessità di non giudicare mai gli uomini, di riferirne per quanto possibile i pregi, di esaltarne le virtù e di chiudere un occhio sui difetti.
Oscar Luigi Scalfaro, il politico, non mi è stato simpatico proprio mai; tuttavia oggi rimpiango il mite vecchietto che per anni ho incontrato ogni giorno alla messa della mezza, presso la Chiesa del Gesù, e che non mi dava mai il tempo di salutarlo per primo. Riposi in pace, anche in beffa alla misera ostinazione dei giornalisti.

giovedì 26 gennaio 2012

MILLE GIORNI

Slide show sull'Aquila,
a mille giorni dal sisma del 6 Aprile 2009

Dedicato a Gioggiò

mercoledì 25 gennaio 2012

Costa Concordia: una metafora costruttiva



La stampa italiana sostiene che ci siamo ricoperti di ridicolo, a livello internazionale, con questa storia del naufragio della Concordia. Pensavo anch’io che ci fosse da vergognarsi per una figuraccia simile. Ritenevo che si dovesse riflettere a fondo sulle ragioni di una leggerezza e di un’irresponsabilità tanto pervicaci, da legittimare e sdoganare, per così dire, una pratica becera e oziosa come quella dell’“inchino”; poi abbiamo appreso che quei “passaggi radenti” rappresentavano addirittura una tecnica pubblicitaria, ideata dalla ‘casa madre’: allora in molti hanno iniziato a sospettare che non si trattasse di un’eccezione sconosciuta alla Guardia Costiera, ma di una consuetudine tacitamente accettata dalle Autorità marittime.
Ciò non toglie che io trovo riprovevole – e ho biasimato anche pubblicamente – l’istituzione immediata di un parallelo tra la triste vicenda della Costa Concordia e l’Italia del nostro tempo. Ho letto articoli davvero ridicoli, in cui si paragonava l’intero sistema-Italia all’atteggiamento prima scriteriato e bontempone, poi persino vigliacco e pusillanime, del Capitano Schettino. Trovo esecrabili gli editoriali che indulgendo alle generalizzazioni più acritiche, pretendono di dipingerci come un popolo di smidollati senza criterio e senza onore: commenti tanto più odiosi quando appaiano, a firma di giornalisti italiani, su testate straniere e in lingua straniera… absit iniuria verbis. Il fatto è che certa stampa galoppa sull’onda dell’emotività, ed è innegabile che le metafore della nave che affonda, del capitano che scappa e dei francesi che ridono alle nostre spalle, di questi tempi, ci calzino a pennello. Tuttavia – come accadeva ai tempi della scuola, in cui non cavalcare un doppio senso sfuggito alla professoressa ci costava ben più della probabile punizione conseguente – c’è un tempo in cui vale la pena resistere a certe tentazioni. Un’epoca in cui mezza Europa ci tiene d’occhio, squadrandoci con una certa diffidenza, è forse il momento migliore per smetterla di riderci addosso. Non che io consideri pericolosa l’autoironia, dico solo che non tutti sono all’altezza di comprenderla. Da ragazzino facevo sempre lo scemo, camuffando con un atteggiamento ilare e scherzoso il mio eccesso di sicurezza e le crisi generate da un ragionare continuo e contorto, forse anche da una 'prematura maturità'; bè, non mancava mai nelle compagnie che frequentavo l’ingenuotto – di solito un cicciottello comandino, spesso il capetto della truppa –  che finiva per giudicarmi davvero cretino. Ora, posso aprirmi quanto volete al dubbio che alla fin fine non fossi un genio – del resto, pur ragionando retrospettivamente, non si scorge il giorno in cui lo diventai, giacché con tutta evidenza non lo sono – ma mi rimane il sospetto che a furia di scherzare, si finisca per convincere almeno gli idioti che siamo davvero un po’ leggerotti. 
A questo punto, non è per offendere nessuno, ma se pensate ad esempio a Sarkozy, non trovate probabile che da bambino avesse qualche chiletto in più, che tendesse ad assumere nel suo gruppo un ruolo di leadership?.. Ecco, ci siamo capiti. Il fatto è che amo visceralmente l’Italia, e quando la vedo anche solo appena appena vilipesa, soffro come se si offendesse mia madre: che differenza c’è fra mamma nostra e l’Italia? Allora lo capiamo benissimo: uno svampito che centra l’Isola del Giglio con un transatlantico può essere una comica pazzesca o un dramma nazionale; ma giacché ci sono dei morti e si rischia una catastrofe ambientale, affrontare la cosa a slogan, battutine, magliette e articoli autoironici – che so, sul Financial Times… – non mi pare il sistema migliore per convincere la Merkel della nostra serietà, e per farle sganciare qualche soldo… C’è un tempo in cui si può scherzare e fare battutacce, un momento in cui l’ironia e l’autoironia sono comprese e benaccette; ma poi viene l’ora in cui si studia, in cui ci s’ingegna per crescere e diventare migliori. Non importa che nel profondo agogniamo la ricreazione; non conta nemmeno il particolare che in realtà consideriamo la ricreazione il succo della scuola, e dei semplici idioti i secchioni del primo banco, convinti che la versione di greco sia più importante della più bella della classe. Non ci piove che noi siamo i geni dell’ultimo banco, troppo consapevoli per applicarci più del minimo, e troppo svegli per non essere i migliori; tuttavia c’è un tempo in cui vale la pena di fingersi seri, per convincere la prof che lo siamo davvero… e per far sì che la nostra ironia non si trasformi in cinismo amaro.