"C'è la bellezza e ci sono gli umiliati.
Qualunque difficoltà presenti l'impresa, non vorrei mai essere infedele né ai secondi né alla prima" A.C.

mercoledì 25 gennaio 2012

Costa Concordia: una metafora costruttiva



La stampa italiana sostiene che ci siamo ricoperti di ridicolo, a livello internazionale, con questa storia del naufragio della Concordia. Pensavo anch’io che ci fosse da vergognarsi per una figuraccia simile. Ritenevo che si dovesse riflettere a fondo sulle ragioni di una leggerezza e di un’irresponsabilità tanto pervicaci, da legittimare e sdoganare, per così dire, una pratica becera e oziosa come quella dell’“inchino”; poi abbiamo appreso che quei “passaggi radenti” rappresentavano addirittura una tecnica pubblicitaria, ideata dalla ‘casa madre’: allora in molti hanno iniziato a sospettare che non si trattasse di un’eccezione sconosciuta alla Guardia Costiera, ma di una consuetudine tacitamente accettata dalle Autorità marittime.
Ciò non toglie che io trovo riprovevole – e ho biasimato anche pubblicamente – l’istituzione immediata di un parallelo tra la triste vicenda della Costa Concordia e l’Italia del nostro tempo. Ho letto articoli davvero ridicoli, in cui si paragonava l’intero sistema-Italia all’atteggiamento prima scriteriato e bontempone, poi persino vigliacco e pusillanime, del Capitano Schettino. Trovo esecrabili gli editoriali che indulgendo alle generalizzazioni più acritiche, pretendono di dipingerci come un popolo di smidollati senza criterio e senza onore: commenti tanto più odiosi quando appaiano, a firma di giornalisti italiani, su testate straniere e in lingua straniera… absit iniuria verbis. Il fatto è che certa stampa galoppa sull’onda dell’emotività, ed è innegabile che le metafore della nave che affonda, del capitano che scappa e dei francesi che ridono alle nostre spalle, di questi tempi, ci calzino a pennello. Tuttavia – come accadeva ai tempi della scuola, in cui non cavalcare un doppio senso sfuggito alla professoressa ci costava ben più della probabile punizione conseguente – c’è un tempo in cui vale la pena resistere a certe tentazioni. Un’epoca in cui mezza Europa ci tiene d’occhio, squadrandoci con una certa diffidenza, è forse il momento migliore per smetterla di riderci addosso. Non che io consideri pericolosa l’autoironia, dico solo che non tutti sono all’altezza di comprenderla. Da ragazzino facevo sempre lo scemo, camuffando con un atteggiamento ilare e scherzoso il mio eccesso di sicurezza e le crisi generate da un ragionare continuo e contorto, forse anche da una 'prematura maturità'; bè, non mancava mai nelle compagnie che frequentavo l’ingenuotto – di solito un cicciottello comandino, spesso il capetto della truppa –  che finiva per giudicarmi davvero cretino. Ora, posso aprirmi quanto volete al dubbio che alla fin fine non fossi un genio – del resto, pur ragionando retrospettivamente, non si scorge il giorno in cui lo diventai, giacché con tutta evidenza non lo sono – ma mi rimane il sospetto che a furia di scherzare, si finisca per convincere almeno gli idioti che siamo davvero un po’ leggerotti. 
A questo punto, non è per offendere nessuno, ma se pensate ad esempio a Sarkozy, non trovate probabile che da bambino avesse qualche chiletto in più, che tendesse ad assumere nel suo gruppo un ruolo di leadership?.. Ecco, ci siamo capiti. Il fatto è che amo visceralmente l’Italia, e quando la vedo anche solo appena appena vilipesa, soffro come se si offendesse mia madre: che differenza c’è fra mamma nostra e l’Italia? Allora lo capiamo benissimo: uno svampito che centra l’Isola del Giglio con un transatlantico può essere una comica pazzesca o un dramma nazionale; ma giacché ci sono dei morti e si rischia una catastrofe ambientale, affrontare la cosa a slogan, battutine, magliette e articoli autoironici – che so, sul Financial Times… – non mi pare il sistema migliore per convincere la Merkel della nostra serietà, e per farle sganciare qualche soldo… C’è un tempo in cui si può scherzare e fare battutacce, un momento in cui l’ironia e l’autoironia sono comprese e benaccette; ma poi viene l’ora in cui si studia, in cui ci s’ingegna per crescere e diventare migliori. Non importa che nel profondo agogniamo la ricreazione; non conta nemmeno il particolare che in realtà consideriamo la ricreazione il succo della scuola, e dei semplici idioti i secchioni del primo banco, convinti che la versione di greco sia più importante della più bella della classe. Non ci piove che noi siamo i geni dell’ultimo banco, troppo consapevoli per applicarci più del minimo, e troppo svegli per non essere i migliori; tuttavia c’è un tempo in cui vale la pena di fingersi seri, per convincere la prof che lo siamo davvero… e per far sì che la nostra ironia non si trasformi in cinismo amaro.

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