Costruii l'impianto fondamentale di questo articolo a 23 anni, fresco di studi filosofici. Alcune delle riflessioni contenute in queste righe mi sembrano tanto convincenti e resistenti alla prova del tempo - nonostante il mutamento di molte situazioni e di altrettante idee - che m'è parso il caso di rimaneggiarle, per clistallizzarle in un post. E chissà che prima o poi non ci ritorni, magari riaprendo 'Essere e Tempo' o lo 'Zarathustra'...
Analizzando le posizioni della corrente atea dell’esistenzialismo, in particolare gli esiti della speculazione di Heidegger e di Sartre intorno al problema del rapporto tra finitudine e trascendenza nell’uomo, si ricevono immediatamente due impressioni dominanti, ciascuna riconducibile ad una precisa matrice filosofica: in primo luogo il riferimento costante a quel “senso tragico” dell’esistenza umana inaugurato da Nietzsche; poi, non meno ricorrente, il continuo ammiccamento ad un soggettivismo vagamente relativista, di gusto dichiaratamente cartesiano. Inoltre non mi pare casuale che i condizionamenti culturali appena menzionati afferiscano proprio ai due formanti centrali del carattere problematico dell’esperienza umana, che potrebbero definirsi rispettivamente la questione esistenziale e la questione metafisico-noetica. Mi si perdoni l’accostamento probabilmente un po’ ardito dei termini “metafisco” e “noetico” sotto la formula di un’unica grande problematica; tuttavia mi sembra che mai come nel caso dell’esistenzialismo, l’accoglimento forse un po’ acritico delle proposte gnoseologiche di Cartesio prima e di Kant poi, unitamente al conseguente parziale fraintendimento delle posizioni fenomenologiche, abbiano precluso il cammino verso una soddisfacente radicalizzazione degli interrogativi sull’essere, e quindi l’approdo ad una visione stricto sensu metafisica. Pertanto ho utilizzato il suffisso “noetico” in coda al termine “metafisico”, quasi per smorzare l’intensità e l’onerosità di quest’ultimo, in quanto non credo di poter ritenere che il pensiero esistenzialista abbia in sé maturato, contrariamente agli intendimenti dello stesso Heidegger, un’autentica consapevolezza metafisica sul “mondo” e sull’uomo.
Martin Heidegger |
Friedrich Nietzsche |
E’ l’“esser-colpevoli”, dunque, l’esistenziale forse troppo patetico - e ciò non di meno il più onesto nella prospettiva dell'autore - che caratterizza la visione heideggeriana dell’umana condizione: solo alla luce di questo esistenziale mi pare che diventino più comprensibili anche gli altri, in particolare l’“esser-gettato” e l’“essere-per-la-morte”. Con ciò, vorrei insinuare che l’intera attività speculativa di Heidegger sia sempre condizionata da una soverchiante tensione sentimentale, malinconica e a volte persino lacerante, la quale pur nuocendo alla perspicuità metafisica della sua riflessione - nonché all’organicità del suo impianto esistenzialista - costituisce però una rassicurante reazione al monolitico sistema hegeliano, al contrario troppo baldanzoso nel suo altéro intellettualismo.
Così credo di poter sostenere che l’esistenzialismo heideggeriano non rappresenti altro che la maturazione e l’assimilazione degli stessi drammi della vita dell’uomo moderno sui quali si era affacciato già Nietzsche, non senza un certo cinismo, magari inconsapevole. Non pùo meravigliare, pertanto, la ricorrenza pervasiva di certi temi-chiave nell’uno come nell’altro autore: ad esempio la “temporalità apparente” di Nietzsche, che dà corpo alla “Temporalitat” heideggeriana, o il nietzscheano “nichilismo positivo”, che precorre in qualche modo l’esistenziale del “zum-Tode-sein”, però inteso da Nietzsche - a differenza di Heidegger e probabilmente con percezione pressoché allucinata - come una dionisiaca “volontà di potenza”.
Allora sembra potersi attribuire alle differenti sensibilità degli autori - e forse anche alla loro appartenenza a diverse epoche storiche, contraddistinta per Heidegger dall'esperienza degli esiti tragici del decostruttivismo metafisico moderno - lo sviluppo in termini antitetici dei medesimi spunti di riflessione. Infatti l’esistenza ebbra e irresponsabile del super-uomo nietzscheano, colpevole dell’assassinio di Dio e non per questo meno fiero della propria rinnovata dignità nella solitudine dell’universo muto, rimane contrassegnata da una forma perversa di attivismo tracotante e sconsiderato: la morale non può trovarvi posto e l’agire umano, quintessenza dell’esistere, si trasforma in un “gioco tragico” stigmatizzato dalla pena del non-senso. Una strisciante ipocrisia mi sembra si celi nel tentativo di perpetuare, attraverso la teorica dell’“eterno ritorno dell’uguale”, il non-senso dell’attimo presente, volendogli così artificiosamente conferire una significatività che esso non può possedere già per iniziale ammissione.
A ben guardare, però, la criticità di fondo presente nel sistema nietzscheano, e consistente nel divorzio fra Lògos e morale, si riverbera pure sul concetto heideggeriano di libertà. Se infatti la libertà del super-uomo nietzscheano, smarrito ogni legame con la struttura ontologica del reale e di conseguenza con ogni genere di discernimento ad opera delle facoltà superiori della ragione e della volontà, si trova ridotta allo stato di psicologismo o intuitivismo meramente biologista, anche la libertà dell’Esserci heideggeriano si scopre alquanto carente di alcuni dei suoi connotati primari: in primo luogo di un contenuto credibile. E non poteva essere diversamente: lo scetticismo ontologico di Heidegger condanna l’uomo ad una precomprensione dell’essere degli enti, che risulta alla lunga estraniante, poiché non rende ragione dell’originaria omogeneità fra Esserci, come unico ente libero, e Welt, come unico possibile orizzonte di significato per la progettualità intrinseca all’esistere. E ciò perché l’unica affinità fra Uomo e Mondo non può che ravvisarsi nella più radicale caratteristica che li accomuna, e che consiste nel fatto di partecipare entrambi ad un essere che non appartiene loro, ma che al contrario si manifesta anzitutto come donato. Una volta misconosciuta, come accade ad Heidegger, la prioritaria datità dell’ente come fonte d’ispirazione per la comprensione della struttura profonda della realtà, si finisce per fraintendere pure il compito e la dignità dell’uomo: se l’essere non è infatti considerato in primo luogo come dono libero e gratuito, la domanda sulla spiritualità dell’uomo rimane senza risposta; allora un “Io” esclusivamente soggettivista, confuso e giocoforza ipertrofico, è condannato a ricalibrare, in relazione a sé soltanto, l’intera significatività del reale, per ciò stesso obliando la vera natura dell’essere, e mettendo da parte Dio. Il primo risultato di una così miope operazione ermeneutica consisterà nella perdita del senso della libertà: infatti in Heidegger la vuota progettualità umana non può mai riempirsi di un contenuto morale: l’etica è semmai solo formale - “Progetta!” - ma che cosa si debba progettare, sognare, insomma volere, resta ineluttabilmente un mistero. Così la Temporalitat si va trasfigurando e ricomponendo secondo le sembianze di un destino aberrante: la morte resta inevitabile e perciò in qualche modo “già sempre scelta”, mentre un ingenuo e poco rassicurante storicismo viene applicato a lenimento di una sostanziale disperazione, formalisticamente definita “angoscia”.
Jean-Paul Sartre |
L’affermazione secondo la quale “l’esistenza precede l’essenza”, tema cardine della riflessione sartreiana, non può certo stupire: essa rappresenta in fondo l’estrema deduzione di quel processo di rivoluzione soggettivista che si era avviato in ambito gnoseologico già con Kant - se non prima ancora con Cartesio - e che con Hegel e Heidegger aveva finito per invadere tutte le branche del sapere filosofico, etica inclusa. Quel che piuttosto non convince in Sartre è la negazione delle conseguenze che, sinceramente, non potrebbero non discendere da un’onesta e coraggiosa assunzione delle responsabilità derivanti dall’asserzione richiamata: ad esempio non riesco a comprendere perché mai si debba ritenere quasi strumentale all’affermazione della pienezza della libertà umana la previa esclusione persino del dubbio circa l’ipotizzabilità di un Dio creatore. Ho l’impressione che, al contrario, la prima non si spieghi senza il Secondo; o almeno ciò è indubitabile a livello di principi logici già consolidati nel dialogo filosofico, i quali dunque, per essere sovvertiti, necessiterebbero se non altro di lunghe e dettagliate giustificazioni: Sartre si limita invece a dare in pasto all’uditorio pillole di verità preconfezionata, esclusivamente attraverso l’uso sapiente della retorica, o persino attraverso l’utilizzo di un argomento - forse di un inganno - di memoria remota, e cioè saltando senza imbarazzi da ipotesi di ordine logico a persuasioni di carattere ontologico fondate sulle prime; il che ricorda vagamente, e però alla rovescia, la criticatissima tecnica argomentativa già utilizzata in illo tempore da Sant’Anselmo, nella sua prova - per singolare nemesi storica - proprio dell’esistenza di Dio.
Inoltre mi sembra difficilmente comprensibile il fondamento dell’affermata responsabilità nell’agire, di colui che senza referenti etici “impegna”, con le sue scelte, “tutta l’umanità”. Di certo l’immagine dell’implicazione universale dell’ uomo nell’istantanea decisione morale di ciascun singolo rimane suggestiva, ma avrei giudicato più corretto e conseguente ammettere che, in un’esistenza del tutto sganciata dai binari di una previa natura umana intesa come struttura data e insieme come compito da realizzare, nonché privata del Valore discriminante di un Dio, non resta alcuno spazio per un discernimento, anche solo logico, fra bene e male; cosicché il tema della responsabilità verrebbe ad essere una pura petizione di principio.
A maggior ragione l’angoscia, “sentimento della propria completa e profonda responsabilità”, così svuotata del proprio precipuo contenuto, si ritrova spogliata pure di quella carica patetica della quale forse in Heidegger non era stata del tutto privata. In Sartre sembra assente proprio la partecipazione esistenziale e sentimentale, che non era invece stata estranea all’argomentare heideggeriano; tanto che il filosofo francese finisce per tentare di conciliare, in modo improbabile, la propria visione angosciata dell’esistenza con la risoluta affermazione che “non c[i sia] dottrina più ottimista” dell’esistenzialismo, asserzione pure questa priva di una spiegazione ragionevole, dato che si fonda su un’unica anodina considerazione: “Perché il destino dell’uomo è nell’uomo stesso”.
Per concludere, insomma, mi pare di poter dire che l’oblio dell’essere heideggeriano, allorché viene tematizzato assurgendo a presupposto esplicito del pensiero di Sartre, riveli tutta la sua carenza, non solo metafisica e teoretica in senso lato, ma anche pratica e cioè morale.
La sola utensilità degli oggetti reali non dà infatti ragione della loro profonda significatività ontologica, soprattutto in relazione alle scelte libere dell’uomo; i contorni della temporalità restano appena abbozzati e trascolorano ben presto in una dialettica storicista poco convincente; infine, ed è quel che è peggio, una siffatta resa all’inconsistenza metafisica dell’intera realtà finisce per ripercuotersi negativamente sullo stesso statuto della libertà umana, strappandogli proprio la responsabilità e la dignità, dalle quali invece esso risulta caratterizzato, e attraverso le quali si definisce.
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