La Bioetica, il diritto e la stessa filosofia si rivelano spesso “scienze” impacciate e persino insufficienti nel risolvere coerentemente problemi concreti, pur afferenti al proprio specifico ambito d’indagine. Basti pensare ai problemi di inizio e fine vita, per quanto riguarda la bioetica, oppure, per quanto concerne i problemi giuridici, all’attribuzione di diritti contesi o contendibili, come il riconoscimento delle coppie di fatto omosessuali o l’attribuzione di diritti agli immigrati. Anche l’economia non sfugge a criticità difficilmente riducibili attraverso i soli strumenti propri di quella disciplina: la scelta tra un orientamento dirigista o liberista, ad esempio, è questione che pur afferendo all’ambito economico, finisce per provocare dibattiti e inquietudini di diversa natura, che si potrebbero sbrigativamente ricondurre alla sfera politica in senso lato, ma che corrispondono, in ultima analisi, a interrogativi dal contenuto spiccatamente etico.
La stessa filosofia, in fondo, continua ad essere investita del compito arduo di fornire le ragioni e lo statuto metafisico di un concetto di “natura” – e di natura umana in particolare – in grado di giustificare il fondamento di un’etica, e conseguentemente di un diritto naturale.
Per quanto riguarda in particolare l’ambito giuridico, l’esempio della legittima difesa è utile a mostrare alcune contraddizioni di fondo, che svelano la parziale incomprensione, da parte del legislatore, di alcuni dei principi ispiratori del nostro sistema penale. Si tratta, a noi sembra, di un’incomprensione fondata sul parziale abbandono di valori legati allo statuto precipuo della persona umana, e quindi al diritto naturale. Ci siamo riferiti al caso concreto della riforma della legittima difesa di qualche anno fa: la ripetizione di un comportamento deviante destò un particolare allarme sociale perché fece temere per il bene comune. Bisogna dire, quindi, che il principio generale – che cioè sussista legittima difesa solo in compresenza di entrambi i requisiti, della proporzionalità fra offesa e difesa e della contestualità delle due condotte – sembrò vacillare perché il contrasto tra bene-vita dell’aggressore e bene-vita dell’aggredito, conflitto cui aveva avuto riguardo il primo legislatore nel prevedere questa specifica causa di giustificazione, si era trasformato nel diverso conflitto tra bene-vita dell’aggressore e bene pubblico, generale, leso dallo stesso allarme sociale destato dall’inflazione, ormai non più accettabile nella percezione comune, dei comportamenti devianti. La pericolosità intrinseca alla ripetizione dei comportamenti devianti, tuttavia, pur reclamando a livello di politica criminale una qualche reazione, non giustifica una minor tutela del bene-vita dei consociati, quand’anche si tratti di uno dei famosi “ladri di villa”. Quando il ladro sia disarmato, dunque, o comunque non porti alcun attacco al bene-vita del rapinato, non si potrà mai riconoscere la sussistenza della legittima difesa allorché quest’ultimo attenti alla vita dell’offensore. Si tratta qui di un problema solo apparentemente giuridico, che in realtà fa appello alla coscienza dei consociati, e soprattutto all’identità giuridica che un’intera società ha scelto per sé. La civiltà del diritto reclama un orizzonte di valori condivisi, che tenga sempre la persona al centro della propria attenzione e della propria tutela: una disciplina più elastica della legittima difesa, violando senza dubbio l’interesse a questa protezione rafforzata, tradirebbe il primo dogma della civiltà del diritto, ed entrerebbe quindi in contraddizione con se stessa; e ciò accadrebbe comunque: sia che la società si autorappresenti come fondata sul diritto naturale, sia che da simili questioni “filosofiche” tenti di affrancarsi.
Marco Giorgetti
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