L'alpinismo è una forma di manifestazione di una scelta esistenziale. Che si tratti di affermazione o di semplice protesta, direi che dipende dal modo in cui ciascun alpinista interpreta o intende il proprio gesto. Comunque resta fermo il principio: la scalata sottende un orizzonte di valori che vanno ben al di là dell'impresa sportiva. In questo senso l'alpinismo è una forma di espressione culturale, che mette in gioco tutto l'uomo, il suo essere e la sua capacità di produrre significato.
Direi che l'alpinismo è una forma di violenza necessaria, come la guerra, l'amore o la rivoluzione. E anche in montagna, come in amore e in battaglia, per sopravvivere bisogna vincere; oppure perdere con dignità. Perciò credo che il vero obiettivo dell'alpinismo non sia salire, ma concepire progetti realizzabili e al contempo ambiziosi, e poi concretizzarli seguendo le regole etiche della scalata by fair means.
La parabola dell'alpinismo si rivela in questo modo un grande esercizio di dignità, in cui facoltà caratteristiche dell'uomo - quali l'immaginazione, la ragione e la volontà - vengono esercitate per prevalere sulle forze cieche della natura, ma anche sulle insidie della paura e delle subdole inclinazioni suicide, che talvolta si affacciano alla nostra mente.
Per anni mi sono chiesto quale elemento costituisse il più fiero antagonista dello scalatore: la forza di gravità? La paura? Il vuoto o la sua proiezione mentale? Non saprei dirlo con certezza. Tuttavia, procedendo per esclusione, vorrei chiarire che la forza di gravità altro non è che uno dei presupposti necessari dell'alpinismo. C'è lo scacchiere e si gioca a dama, c'è la gravità e allora si può scalare.
Per quanto riguarda la paura, direi che ogni neofita dell'alpinismo è solo un atleta, finché prova una paura immobilizzante. Io stesso ho scalato per i primi cinque anni in preda al terrore: tornavo in montagna proprio per provare nuovamente quella paura assoluta e tentare di superarla. Sino a questo stadio, la paura è da intendersi come un automatismo fisiologico ineliminabile, e va quindi paragonata al senso di affaticamento fisico che si prova negli sport aerobici. E se non ti alleni, ad esempio nella corsa, è ben vero che eviterai di stancarti, però non riuscirai a vincere, spostandola in avanti, la tua soglia di affaticamento. Discorso identico vale per la paura: arriva prima o poi il giorno in cui corri senza fiatone, e così c'è anche il momento in cui scali senza paura. Chiariamo: "senza paura" non è del tutto corretto; diciamo che si arriva a scalare senza terrore, senza una paura negativa e immobilizzante, ma bisogna ben guardarsi dall'eliminare un sano timore dal proprio bagaglio cognitivo, finché si sta in montagna. "Chi non ha paura muore una volta sola", diceva Paolo Borsellino: ecco, è proprio quella volta lì che l'alpinista desidera rinviare per quanto possibile.
Insomma, superato il terrore, secondo me si smette di essere uomini comuni che vanno in montagna, e si diventa alpinisti. L'alpinista è quindi uno che dà per scontata la forza di gravità, che ha sconfitto il terrore, che sfrutta a proprio vantaggio un po' di sana paura, e che lotta ogni giorno contro la paura di essere colto dal terrore. La sola paura dell'alpinista, in fondo, è la paura di aver paura.
Quanto al vuoto e alla sua proiezione mentale, si tratta di dimensioni che l'alpinista trova esaltanti. Prendiamo l'esempio di un passaggio particolarmente esposto lungo un tiro impegnativo: l'esposizione ti incute un timore che cerchi di contenere sia con espedienti psico-fisiologici, sia attuando contromisure di carattere tecnico: controlli la respirazione, ti ripeti che sei in grado di affrontare quel passaggio, e comunque cerchi di piazzare una buona protezione per limitare i danni di un'eventuale caduta. Dopo di che - se non sei più solo un uomo, ma anche un alpinista - sai che dovrai cavalcare l'irrazionale, tuo migliore alleato. E' allora che ti slanci verso il passaggio, in preda ad uno stato di esaltazione multisensoriale difficilissimo da descrivere. Guardi dall'esterno te stesso che scali in balia del vuoto - quasi non fossi tu ad arrampicare - e al contempo domini il tuo corpo, e ogni centimetro di roccia, con sensibilità potenziata e precisione chirurgica: sono i due risvolti, apparentemente incompatibili eppure così coerenti nel loro paradosso, di una sensazione unica e pressoché inspiegabile, che costituisce la felicità e la droga di ogni alpinista.
Resta il fatto che l'alpinismo non è attività da "uomini qualunque". L'alpinista è sempre anche, e forse soprattutto, un eroe. Il suo eroismo consiste nella capacità di mettere tra parentesi se stesso - la difesa delle proprie certezze e della propria sopravvivenza biologica - pur di stanare i fantasmi che si nascondono nella propria interiorità. L'alpinista invoca, suscita e provoca il mostro che ogni uomo si porta dentro, e subito si getta a strangolarlo a mani nude; il riscatto autentico dell'alpinista consiste in quest'immagine rinnovata di se stesso: uomo autentico che non rinuncia ad ingaggiare contro i propri limiti una lotta leale, corpo a corpo.
Ma non si concluda, per ciò solo, che lo scalatore sia allora un egotico solipsista; e nemmeno un rozzo, votato all'agire più che al riflettere. Il falso intellettuale, anzi, suole starsene immobile e ben pasciuto con le mani posate in grembo: sovente è persuaso - giacché egli è per lo più relativista - che la ritenuta indifferenza tra gli opposti gli strizzi l'occhio, assolvendolo dalla sua ignavia. Ma vero filosofo è l'alpinista: a nervi tesi corrode se stesso, certo che la passione che gli arde nel petto lo consumerà, sino a svelargli il reale, proprio al di là di sé; ben oltre quel Sé ingombrante nel quale i vili inciampano e restano imprigionati. Per questo lo scalatore è anche un ottimista: la fiducia nella verità muove guerra ogni giorno al nichilismo che imbriglia gli inetti.
Certo che esiste un uomo buono anche ai piedi delle montagne! Ma se volete propormi un modello di umanità alternativo all'alpinista, per non rischiare portatemi almeno un santo. Un santo, certo, e non un bonaccione: l'umanità si fa attraverso un eroismo che in radice è violento. Si definisce lotta, non a caso, quello sforzo per la conquista della virtù, tipico di chi disdegna l'immobilismo dei benpensanti. Ed è ascetica, cioè rivolta verso l'alto, la lotta dell'umanità; poiché anche l'uomo autentico, come la verità, si trova oltre il Sé, più in alto dei vizi banali dell'Io.
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