"C'è la bellezza e ci sono gli umiliati.
Qualunque difficoltà presenti l'impresa, non vorrei mai essere infedele né ai secondi né alla prima" A.C.

venerdì 10 febbraio 2012

Blizzard, chi era costui?..

Non vedete il contrasto che c’è tra il suo cadere, silenziosa, e lo strepito della tv? Quando si parla di neve, “ovattato” è l’aggettivo del silenzio: come se “silenzio”, da solo, non bastasse. I giornalisti gridano dagli altoparlanti di apparecchi improbabili, lanciano allarmi a caratteri cubitali dal pezzo di giornale che crepitando emana il primo tepore dal fondo del camino: “Nella morsa del gelo, il week end più lungo”. Stona pure l’inglesismo. 
Direi che verranno un sabato e una domenica, due giorni di neve per riflettere al caldo sul paradosso della velocità. I “disagi causati dall’interruzione dei servizi a rete” è lessico burocratico che non comprendo, soprattutto linguaggio che non mi scalda. Se invece di andare me ne sto, mi godo le virtù del servizio che funziona: il vicino che spala all’alba sul vialetto che è pure il mio, il papà che spegne il termosifone e aggiunge un ciocco nel camino, perché quando nevica è più bello così. 
Mio nonno, in fine settimana come questi, m’insegnava a montare le catene da neve, a spalare con ordine e a cuocere quanto basta le patate sotto al coppo. Ozio apparente di una domenica perturbata, l’azione dei giorni a venire stava tutta nella pazienza di gesti antichi: affilare con la lima ramponi e piccozze, ricucire fibbie di ghette e zaini usurati e ingrassare scarponi col panno di lino. Indimenticabile l’odore del grasso raffinato, che si mescola alle resine di quercia bruciata nel camino. Il sigillo del pazientare stava nell’insegnamento definitivo, di tenere gli scarponi ad asciugare lontano dalla fiamma: omaggio persino simbolico alle virtù dell’attesa, del conversare senza tema e della condivisone dei ricordi. Nonno parlava con la pensosità di chi narra nello sforzo di ricostruire, di valutare, e di sfuggire sempre alla tentazione di dar giudizi: dal terremoto del ’15 nella Marsica alla guerra in Abissinia, dal conflitto mondiale alla politica dell’Italia repubblicana. Ad ascoltarlo, ti accorgevi della fatica di alimentare sempre un dubbio, per lasciare in sospeso la sentenza, aperto il racconto a più morali. Vedevi l’atteggiamento di un uomo che s’era sporcato le mani con la storia, che non dice “ma io” e nemmeno “mai più”. Erano uomini d’altri tempi: se c’era da spostare un peso enorme si chiedevano come fare, e non chi l’avrebbe fatto, o peggio chi l’avesse lasciato là dov’era. Soprattutto, mio nonno aveva chiaro che ogni fardello si sarebbe rimosso “come s’è sempre fatto”, motto di serenità capace di farti spostare le montagne. E poi quelli come lui avevano buongusto: uno stile fatto a volte anche d’indignazione, ma mai di odio, sentimento troppo scomposto. Lo vedevi dalle considerazioni sulla condotta della Germania nazista, un’assunzione di corresponsabilità matura, lontana anni luce da quell’editoriale di Sallusti di qualche giorno fa. Quel titolo goffo “A noi Schettino a voi Auschwitz”, nonno l’avrebbe sistemato con cura sul fondo del camino, con la leggerezza distaccata di chi, punendo un bimbo, ride al contempo anche di sé. Che classe gli uomini statici d’un tempo, giravano i canali della tv al massimo un paio di volte, poi spegnevano rassegnati, senza indulgenza verso alcun reality show. Mai ascoltato dalla bocca di mio nonno un commento sdegnato sul palinsesto televisivo, e così pure il corsivo altezzoso di Aldo Grasso alimenta un poco la fiamma.
Si usciva a piedi, sorridenti, si rientrava spesso zuppi e sempre felici. Si stava col naso attaccato alla finestra appannata, a guardare i fiocchi scendere lentamente; si parlava per ore o si sonnecchiava insieme, tra uno schiocco di scintille e un riflesso di fiamma contro lo schermo nero del televisore spento. Se qualcuno avesse parlato di Blizzard, di morsa del gelo o colpo di coda dell’inverno, ci saremmo guardati sgomenti, senza capire. 
C’era soprattutto il senso della realtà, quella comprensione delle cose che dovrebbe suggerire agli uomini di dar valore al risvolto positivo degli eventi, i quali col loro semplice accadere si impongono alla coscienza come dati di fatto: è così per la neve e per il sole, ma anche per il terremoto, per l’esserci delle montagne immobili, e del mare; e per l’inconveniente invincibile dell’ammalarsi o del morire.
C’era rispetto per la realtà. Un riguardo dignitoso, che consisteva nell’accoglierla comunque come dono. Compostezza, dignità e rispetto sembrano parole del secolo scorso, contro le quali lampeggiano oggi luci esotiche ed esterofile – che diremmo infatti ‘al led’: servizi a rete interrotti, disagi in città, scontro fra sindaco e protezione civile, la "rete" posta un tweet irriverente verso il primo cittadino, fioccano le battute su Facebook
Ribellatevi a quest’imbarbarimento efficientista: statevene a casa. Godetevi il fuoco. Non cucinate sulla fiamma cibi preconfezionati. Lasciate che i bambini giochino con la neve, concedete almeno a loro quest’innocenza gioiosa, disarmata e tutt’altro che ingenua. Spegnete la TV. Chiacchierate. State in silenzio.

La pioggia precipita rapida, percola veloce verso la falda e si disperde; la neve arriva lenta e si deposita, penetra nel minimo anfratto. E’ l’acqua che berremo in tempo di siccità: una metafora monitoria.