"C'è la bellezza e ci sono gli umiliati.
Qualunque difficoltà presenti l'impresa, non vorrei mai essere infedele né ai secondi né alla prima" A.C.

venerdì 30 dicembre 2011

TE DEUM

Benedico Te, anche per quest'anno. Ti benedico, che è più che ringraziare, soprattutto per conto di chi si dimentica di farlo.
Ti ringrazio anzitutto per ciò che più mi sfugge: quel che per abitudine dò per scontato.
Ti ringrazio per quello che mi manca, e mi scuso se a volte non metto a frutto il troppo che ho.
Mi scuso pure per la distrazione verso le persone, e per l'incapacità di mostrare i miei affetti.
Perdonami se definisco “senso religioso” la nostra amicizia. E scusami se a chi mi chiede di noi, rispondo che credo ma non pratico più; è un modo ingenuo per rivendicare l'autenticità della mia fiducia, a prescindere da ogni condizionamento; ma non mi sfugge che così Ti sottraggo il mio corpo e parte del mio tempo, e perciò Ti ringrazio anche del senso di colpa, che ancora mi concedi di provare in ragione di questa mancanza.
Ti benedico per il respiro di molti, e Ti “comprendo” nella Tua cura per tutti.
Grazie soprattutto per la lucidità che mi doni, di non venerare il mio dubbio più del Tuo mistero: è lo slancio costante dei miei giorni, attraverso il quale mi metto tra parentesi, e vedo. Così posso dire di vivere solo attraverso di Te, ché sennò sarei prigioniero dell'ombra che io sono. Per questo anziché mille grazie e un diluvio di auguri, mi basta balbettare a Te il mio pensiero irrisolto. Te Deum è la sola invocazione che mi salga alle labbra; e ho già detto tutto.

lunedì 19 dicembre 2011

Il paradosso del diritto naturale. La legittima difesa

Risposta al problem solving del Seminario DISF Working Group del 5 Novembre 2011, per ulteriori considerazioni e approfondimenti sul tema, http://www.disf.org/DWG/111105_ProblemSolved.pdf



La Bioetica, il diritto e la stessa filosofia si rivelano spesso “scienze” impacciate e persino insufficienti nel risolvere coerentemente problemi concreti, pur afferenti al proprio specifico ambito d’indagine. Basti pensare ai problemi di inizio e fine vita, per quanto riguarda la bioetica, oppure, per quanto concerne i problemi giuridici, all’attribuzione di diritti contesi o contendibili, come il riconoscimento delle coppie di fatto omosessuali o l’attribuzione di diritti agli immigrati. Anche l’economia non sfugge a criticità difficilmente riducibili attraverso i soli strumenti propri di quella disciplina: la scelta tra un orientamento dirigista o liberista, ad esempio, è questione che pur afferendo all’ambito economico, finisce per provocare dibattiti e inquietudini di diversa natura, che si potrebbero sbrigativamente ricondurre alla sfera politica in senso lato, ma che corrispondono, in ultima analisi, a interrogativi dal contenuto spiccatamente etico. 
La stessa filosofia, in fondo, continua ad essere investita del compito arduo di fornire le ragioni e lo statuto metafisico di un concetto di “natura” – e di natura umana in particolare – in grado di giustificare il fondamento di un’etica, e conseguentemente di un diritto naturale.

Per quanto riguarda in particolare l’ambito giuridico, l’esempio della legittima difesa è utile a mostrare alcune contraddizioni di fondo, che svelano la parziale incomprensione, da parte del legislatore, di alcuni dei principi ispiratori del nostro sistema penale. Si tratta, a noi sembra, di un’incomprensione fondata sul parziale abbandono di valori legati allo statuto precipuo della persona umana, e quindi al diritto naturale. Ci siamo riferiti al caso concreto della riforma della legittima difesa di qualche anno fa: la ripetizione di un comportamento deviante destò un particolare allarme sociale perché fece temere per il bene comune. Bisogna dire, quindi, che il principio generale – che cioè sussista legittima difesa solo in compresenza di entrambi i requisiti, della proporzionalità fra offesa e difesa e della contestualità delle due condotte – sembrò vacillare perché il contrasto tra bene-vita dell’aggressore e bene-vita dell’aggredito, conflitto cui aveva avuto riguardo il primo legislatore nel prevedere questa specifica causa di giustificazione, si era trasformato nel diverso conflitto tra bene-vita dell’aggressore e bene pubblico, generale, leso dallo stesso allarme sociale destato dall’inflazione, ormai non più accettabile nella percezione comune, dei comportamenti devianti. La pericolosità intrinseca alla ripetizione dei comportamenti devianti, tuttavia, pur reclamando a livello di politica criminale una qualche reazione, non giustifica una minor tutela del bene-vita dei consociati, quand’anche si tratti di uno dei famosi “ladri di villa”. Quando il ladro sia disarmato, dunque, o comunque non porti alcun attacco al bene-vita del rapinato, non si potrà mai riconoscere la sussistenza della legittima difesa allorché quest’ultimo attenti alla vita dell’offensore. Si tratta qui di un problema solo apparentemente giuridico, che in realtà fa appello alla coscienza dei consociati, e soprattutto all’identità giuridica che un’intera società ha scelto per sé. La civiltà del diritto reclama un orizzonte di valori condivisi, che tenga sempre la persona al centro della propria attenzione e della propria tutela: una disciplina più elastica della legittima difesa, violando senza dubbio l’interesse a questa protezione rafforzata, tradirebbe il primo dogma della civiltà del diritto, ed entrerebbe quindi in contraddizione con se stessa; e ciò accadrebbe comunque: sia che la società si autorappresenti come fondata sul diritto naturale, sia che da simili questioni “filosofiche” tenti di affrancarsi.
  Marco Giorgetti

venerdì 16 dicembre 2011

Più in alto: elogio sedizioso di una violenza pacifista

L'alpinismo è una forma di manifestazione di una scelta esistenziale. Che si tratti di affermazione o di semplice protesta, direi che dipende dal modo in cui ciascun alpinista interpreta o intende il proprio gesto. Comunque resta fermo il principio: la scalata sottende un orizzonte di valori che vanno ben al di là dell'impresa sportiva. In questo senso l'alpinismo è una forma di espressione culturale, che mette in gioco tutto l'uomo, il suo essere e la sua capacità di produrre significato.
Direi che l'alpinismo è una forma di violenza necessaria, come la guerra, l'amore o la rivoluzione. E anche in montagna, come in amore e in battaglia, per sopravvivere bisogna vincere; oppure perdere con dignità. Perciò credo che il vero obiettivo dell'alpinismo non sia salire, ma concepire progetti realizzabili e al contempo ambiziosi, e poi concretizzarli seguendo le regole etiche della scalata by fair means.
La parabola dell'alpinismo si rivela in questo modo un grande esercizio di dignità, in cui facoltà caratteristiche dell'uomo - quali l'immaginazione, la ragione e la volontà - vengono esercitate per prevalere sulle forze cieche della natura, ma anche sulle insidie della paura e delle subdole inclinazioni suicide, che talvolta si affacciano alla nostra mente.
Per anni mi sono chiesto quale elemento costituisse il più fiero antagonista dello scalatore: la forza di gravità? La paura? Il vuoto o la sua proiezione mentale? Non saprei dirlo con certezza. Tuttavia, procedendo per esclusione, vorrei chiarire che la forza di gravità altro non è che uno dei presupposti necessari dell'alpinismo. C'è lo scacchiere e si gioca a dama, c'è la gravità e allora si può scalare. 
Per quanto riguarda la paura, direi che ogni neofita dell'alpinismo è solo un atleta, finché prova una paura immobilizzante. Io stesso ho scalato per i primi cinque anni in preda al terrore: tornavo in montagna proprio per provare nuovamente quella paura assoluta e tentare di superarla. Sino a questo stadio, la paura è da intendersi come un automatismo fisiologico ineliminabile, e va quindi paragonata al senso di affaticamento fisico che si prova negli sport aerobici. E se non ti alleni, ad esempio nella corsa, è ben vero che eviterai di stancarti, però non riuscirai a vincere, spostandola in avanti, la tua soglia di affaticamento. Discorso identico vale per la paura: arriva prima o poi il giorno in cui corri senza fiatone, e così c'è anche il momento in cui scali senza paura. Chiariamo: "senza paura" non è del tutto corretto; diciamo che si arriva a scalare senza terrore, senza una paura negativa e immobilizzante, ma bisogna ben guardarsi dall'eliminare un sano timore dal proprio bagaglio cognitivo, finché si sta in montagna. "Chi non ha paura muore una volta sola", diceva Paolo Borsellino: ecco, è proprio quella volta lì che l'alpinista desidera rinviare per quanto possibile. 
Insomma, superato il terrore, secondo me si smette di essere uomini comuni che vanno in montagna, e si diventa alpinisti. L'alpinista è quindi uno che dà per scontata la forza di gravità, che ha sconfitto il terrore, che sfrutta a proprio vantaggio un po' di sana paura, e che lotta ogni giorno contro la paura di essere colto dal terrore. La sola paura dell'alpinista, in fondo, è la paura di aver paura. 
Quanto al vuoto e alla sua proiezione mentale, si tratta di dimensioni che l'alpinista trova esaltanti. Prendiamo l'esempio di un passaggio particolarmente esposto lungo un tiro impegnativo: l'esposizione ti incute un timore che cerchi di contenere sia con espedienti psico-fisiologici, sia attuando contromisure di carattere tecnico: controlli la respirazione, ti ripeti che sei in grado di affrontare quel passaggio, e comunque cerchi di piazzare una buona protezione per limitare i danni di un'eventuale caduta. Dopo di che - se non sei più solo un uomo, ma anche un alpinista - sai che dovrai cavalcare l'irrazionale, tuo migliore alleato. E' allora che ti slanci verso il passaggio, in preda ad uno stato di esaltazione multisensoriale difficilissimo da descrivere. Guardi dall'esterno te stesso che scali in balia del vuoto - quasi non fossi tu ad arrampicare - e al contempo domini il tuo corpo, e ogni centimetro di roccia, con sensibilità potenziata e precisione chirurgica: sono i due risvolti, apparentemente incompatibili eppure così coerenti nel loro paradosso, di una sensazione unica e pressoché inspiegabile, che costituisce la felicità e la droga di ogni alpinista. 
Resta il fatto che l'alpinismo non è attività da "uomini qualunque". L'alpinista è sempre anche, e forse soprattutto, un eroe. Il suo eroismo consiste nella capacità di mettere tra parentesi se stesso - la difesa delle proprie certezze e della propria sopravvivenza biologica - pur di stanare i fantasmi che si nascondono nella propria interiorità. L'alpinista invoca, suscita e provoca il mostro che ogni uomo si porta dentro, e subito si getta a strangolarlo a mani nude; il riscatto autentico dell'alpinista consiste in quest'immagine rinnovata di se stesso: uomo autentico che non rinuncia ad ingaggiare contro i propri limiti una lotta leale, corpo a corpo. 
Ma non si concluda, per ciò solo, che lo scalatore sia allora un egotico solipsista; e nemmeno un rozzo, votato all'agire più che al riflettere. Il falso intellettuale, anzi, suole starsene immobile e ben pasciuto con le mani posate in grembo: sovente è persuaso - giacché egli è per lo più relativista - che la ritenuta indifferenza tra gli opposti gli strizzi l'occhio, assolvendolo dalla sua ignavia. Ma vero filosofo è l'alpinista: a nervi tesi corrode se stesso, certo che la passione che gli arde nel petto lo consumerà, sino a svelargli il reale, proprio al di là di sé; ben oltre quel ingombrante nel quale i vili inciampano e restano imprigionati. Per questo lo scalatore è anche un ottimista: la fiducia nella verità muove guerra ogni giorno al nichilismo che imbriglia gli inetti.
Certo che esiste un uomo buono anche ai piedi delle montagne! Ma se volete propormi un modello di umanità alternativo all'alpinista, per non rischiare portatemi almeno un santo. Un santo, certo, e non un bonaccione: l'umanità si fa attraverso un eroismo che in radice è violento. Si definisce lotta, non a caso, quello sforzo per la conquista della virtù, tipico di chi disdegna l'immobilismo dei benpensanti. Ed è ascetica, cioè rivolta verso l'alto, la lotta dell'umanità; poiché anche l'uomo autentico, come la verità, si trova oltre il Sé, più in alto dei vizi banali dell'Io.                        

giovedì 1 dicembre 2011

Aristotelismo natalizio: quando l’oggetto ideale è un dono materiale


Chi l’ha detto che i regali non sono una cosa seria? Quando lo slancio di un dono si appiattiva sul dovere formalistico di “non presentarsi a mani vuote”, mio nonno dismetteva gote rosse, commozione permanente e il pudore col quale parlava, sempre a mezza bocca, di regali fatti e ricevuti. Cambiava persino la parola, riferendosi allora all’obbligo sociale di trovare “un presente”; mica un regalo.
Quando invece si trattava di un vero dono, tramava per settimane col fare misterioso di chi stesse preparando un attentato. Lo sforzo per assecondare il convincimento del nonno di non essere nemmeno sospettato delle sue macchinazioni, pur non scevro da profili comici, costituiva una fatica drammaturgica estenuante. Per di più, il piano di conquista e consegna di questi regali si preannunciava a volte tanto complesso da suggerirgli di eleggere un complice; si trattava di una designazione ad honorem comunicata in tono grave, e resa ancor meno declinabile dal sottinteso che quella chance di partecipazione ai suoi disegni dovesse costituire quanto meno una lusinga.
Non dimenticherò mai la sensazione di smascheramento, ma al contempo di rassicurante empatia, che provai a vent’anni, quando nonno mi chiese che cosa avessi regalato alla mia ragazza. Certe domande contengono una confessione implicita, e l’imbarazzo che avrei dovuto vincere per rispondere a mio nonno – perdonandolo di aver palesato il sentimentalismo che ci accomuna, e che entrambi ci sforziamo di nascondere con una severità posticcia – mi svelava il senso della parola “virilità”. Replicai in modo evasivo, come si conviene nel dialogo tra coloro che di parole non hanno bisogno: in realtà capii che la amavo solo quando le vidi in dosso quel maglione rosso. Lo avevo cercato per ore, imprecando, in un sabato di dicembre; era naturalmente un pomeriggio di sole, il che aveva contribuito non poco ad acuire la mia stizza. Le persone animate da una passione come la mia, egotica e soverchiante, in fondo non possiedono neppure se stesse: faccio pace con le mie ansie solo quando me ne sto appeso su una sperduta parete rocciosa, magari nei pomeriggi di dicembre in cui la gente suole accalcarsi, senza ragioni, nei centri commerciali delle grandi città. Il mio amore, la mia donna, il tepore del sole invernale sulle mie rocce avevano sempre mosso guerra alle “loro” consuetudini cittadine, ai “loro” doveri sociali, alla “loro” tradizione natalizia: Natale era troppo cibo e qualche regalo; per me la solita dieta, da seguire in quei giorni con maggior fierezza, pareti ghiacciate e la compagnia degli amici di sempre.
Ma lo vidi con chiarezza disarmante, quella sera, che lo schema della mie certezze, rassicurante e banale come lo shopping natalizio, s’era infranto sulla trama, fitta, di quel maglione rosso. L’aveva strappato all’anonimato di una boutique sovraffollata – e di certo pure all’irrefrenabile istinto rapace indotto nelle donne dall’atmosfera del Natale – lo sguardo fiero di lei, felice d’essere avvolta e in qualche modo posseduta dal “nostro” maglione, che io stesso non avevo mai, prima di quell’istante, sentito davvero mio.
Eppure ne avevo lette di pagine sul “dono”:  profluvi di elucubrazioni sterili, ad esempio di Jacques Derrida, che ho sempre apprezzato ma mai stimato fino in fondo. Che un regalo crei un “doppio legame” – come lui sostiene – capace di avvincere donante e donatario in una morsa di doveri morali senza sbocco, è valutazione da contabili dei sentimenti, tanto perspicace se accolta nel suo risvolto metaforico quanto arida sul piano analitico e descrittivo. Quale molesto vincolo obbligatorio celerebbero mai gli occhi lucidi di una donna innamorata, destinataria di un regalo? E chi saprebbe valutare il quantum da restituire?..
Semmai, avrei trovato aderenti al mistero di quegli occhi le pagine di Platone, più orientate a spiegare la dinamica del dono attraverso la nozione di gratuità. Ma si tratta anche qui di un ragionamento disincarnato, in ogni caso riduttivo agli occhi di un giovane innamorato. Persino Platone è poca cosa nel giudizio degli amanti: il sigillo dell’amore è quella specie di estremismo egolatrico, refrattario ad ogni concettualizzazione perché incline a blindare il miracolo di cui si è protagonisti con la strenua difesa dell’idea di eccezionalità. E’ un peccato d’ingenuità, tipico degli innamorati, che solo un cinico potrebbe non perdonare. E  che solo chi non ha mai amato non invidia agli amanti.  
Filosofi e poeti non spiegano che qualche riflesso della vita; i giornalisti, poi, non fanno che svilirla. Infischiatevene delle tronfie analisi dei commentatori sul significato anodino del dono natalizio; fatevi beffa, se credete, dei “saggi” inviti alla sobrietà che i giornali ci rivolgono alla vigilia di questo Natale di crisi.
Donate se avete la chance di fare un regalo, e non siete costretti, anche quest’anno, a trovare solo qualche “pensierino”. Io vi invidierei, nonostante provi un certo pudore nel rimpiangere il sentimento che faceva di un noioso dovere l’occasione per un istante di felicità. Ma in verità rimpiango anche la sapienza di mio nonno, capace per abito caratteriale, e senza alcuna vergogna, di spendersi tanto per un regalo: eccesso simbolico, in grado di riassumere in un piccolo gesto le aspirazioni e le cure di una vita intera.
Anche il più incurabile solipsismo è blandito dalla banale materialità di un dono; custodisco con cura feticista la piccozza che nonno mi regalò quando avevo 14 anni, la gigantografia del Monte Bianco che mi consegnò lei, quella sera, sorridendo dal suo maglione rosso, e pure i vecchi moschettoni che mi regalò il mio compagno di cordata, dono che non feci mai in tempo a ricambiare.

giovedì 20 ottobre 2011

Mu'ammar Sarkozy

Questa volta Sarkozy stava per fare una tripletta: in soli due giorni una figlia, una vittoria in guerra e un Governatore della Banca d'Italia. Ma qualcosa è andato storto.
Augurando all'inquilino dell'Eliseo che il vincolo biologico che lo lega alla figlia - Dalia o Julia che sia - risulti più intenso del nesso politico che (non) lo avvince al Governatore designato della Banca d'Italia, Ignazio Visco, diciamo che per una volta il nostro Governo, smarcandosi dai 'desiderata' di Sarkò, ha salvato la faccia.
Quanto alla "vittoria" della guerra di Libia, icasticamente rappresentata, per gli amanti del genere 'splatter', dalle immagini del cadavere di Gheddafi, direi due cose soltanto: il linciaggio 'contra jus' del pur sanguinario dittatore, non ferirà il cuore amantissimo e sinistrorso del cantore della 'libertè' Bernard-Henry Levy, tanto più che con questo successo Sarkò rischia di prolungare la sua permanenza all'Eliseo? E poi, per concludere, direi che noi, da bravi italiani, abbiamo adesso l'occasione di farla di nuovo in barba a Nicolas, tessendo col nuovo governo libico rapporti diplomatici ed economici che mettano in risalto la vicinanza geografica e una storia comune - benché tempestosa - e facciano così sbiadire le ragioni, venali, di un leader che ha scelto una guerra di "liberazione" straniera solo perché i sondaggi elettorali 'domestici' lo davano per spacciato.
Tutto ciò, sia ben inteso, col consueto affetto verso i cugini d'oltralpe, e attendendo con ansia di batterli di nuovo ai prossimi Europei.

giovedì 6 ottobre 2011

SE IL PAPA VUOLE LA RIVOLUZIONE


ELOGIO DELL'AZIONE - Non amo i discorsi; specie in questo periodo di stagnazione economica, di paralisi politica e di apatia morale. Apprezzo i fatti e tengo in minimo conto le parole.
In una lettera recentissima, scrivevo ad un amico: “Se saremo costretti alla lotta di tutti contro tutti per la sopravvivenza, per l'assistenza sanitaria e per un minimo di previdenza, allora la nostra sarà la prima generazione del dopo guerra a conoscere una reale involuzione sociale e, direi, etica, spirituale. Occupati a sopravvivere, infatti, perderemmo inevitabilmente di vista il perseguimento di quei valori capaci di rendere una società - e gli uomini che s'impegnano nello sforzo di costruirla - più giusta e più umana. Così perderemmo la chance di divenire, in quest'unica vita che ci è dato di vivere, più giusti e più umani”. Ciò solo per mostrare quanto io tema, attualmente, che la mancanza di un'iniziativa pragmatica possa finire per incidere negativamente sulla nostra sfera morale.

PERFORMATIVI: PAROLE CHE FANNO - Però c'è un dire che promette cambiamenti. Un dire che, scavando, riporta alla luce, genera una “conversione” che è riscoperta dell'identità, e perciò primo passo di un cambiamento.
Mi riferisco ai discorsi tenuti dal Papa nel corso dell'ultimo viaggio in Germania; testi visionari e altissimi che mi hanno tenuto compagnia negli ultimi giorni, sostituendo – senza farla rimpiangere, incredibile a dirsi! – la mia incallita lettura delle opere politiche di Camus.
Sentite qua, dal discorso del 22 settembre al Bundestag: “In gran parte della materia da regolare giuridicamente, quello della maggioranza può essere un criterio sufficiente. Ma è evidente che nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell'uomo e dell'umanità, il principio maggioritario non basta – e già qui sarebbe da cascare dalla sedia, invece tutto tace, durante e dopo il discorso. E allora il Papa prosegue – Nel processo di formazione del diritto, ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del proprio orientamento. Nel terzo secolo, il grande teologo Origene ha giustificato così la resistenza dei cristiani a certi ordinamenti giuridici in vigore: «Se qualcuno si trovasse presso il popolo della Scizia che ha leggi irreligiose e fosse costretto a vivere in mezzo a loro […], questi senz'altro agirebbe in modo molto ragionevole se, in nome della legge della verità che presso il popolo della Scizia è appunto illegalità, insieme con altri che hanno la stessa opinione, formasse associazioni anche contro l'ordinamento in vigore»”. Camus già impallidisce, troppo ripiegato sulla questione esistenziale della soggettività per poter apparire rivoluzionario almeno la metà del Papa.

ILLUMINISMO D'OLTRETEVERE - Mi chiedo che cosa intenda Ratzinger quando legge da Origene la locuzione “legge della verità”. La risposta arriva sì e no un minuto dopo: “Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto; ha rimandato all'armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un'armonia che però presuppone l'essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio”. Ma se la Ragione creatrice di Dio non è palese - tanto che non può essere imposta, a mo' di legge coranica, per ispirare un intero ordinamento – allora va ricercata. E va ricercata con la libertà di spirito di chi sa che troverà, forse, ma senza mai poter essere certo di aver trovato; ché la Verità di Dio, come sovrabbondanza traboccante, non trova albergo nella mente o nel cuore degli uomini. E allora ditemi voi che differenza c'è fra la ricerca di Cartesio o quella di Kant e la ricerca del Papa Ratzinger. Non a caso “storicista” anche lui: sempre in Germania ha fatto riferimento più volte ad una razionalità cristiana, sorta da un milieu culturale complesso, composto da ingredienti giudaici, greci e romani. Chapeau!

AGNOSTICI IN CIELO - Posizioni evidentemente troppo all'avanguardia, per un Papa, quelle del professor Ratzinger. E infatti non sono mancate le rimbeccate infastidite – ne ho letta una, bellissima, di Marcello Veneziani sul Foglio – da parte dei commentatori di area cattolica. E allora il Papa, tanto per non lasciar adito a dubbi, spiega per filo e per segno – nel corso dell'omelia tenuta durante l'ultima messa celebrata in Germania, all'aeroporto turistico di Friburgo - quale sia il riflesso spirituale del suo pensiero giuridico, etico e in genere filosofico: “Agnostici, che a motivo della questione su Dio non trovano pace; persone che soffrono a causa dei nostri peccati e hanno desiderio di un cuore puro: sono più vicini al Regno di Dio di quanto lo siano i fedeli di routine, che nella Chiesa vedono ormai soltanto l’apparato, senza che il loro cuore sia toccato dalla fede”. Trasalisco, anzi, mi commuovo. C'è una carica drammatica in queste parole pronunciate da un Papa... “L'uomo può essere vicino a Dio a prescindere da me, da noi, dalla Chiesa”, io queste espressioni le intendo così, come se un re dicesse che si può essere vassalli anche senza prostrarsi ai suoi piedi: una servitù fatta solo di libertà.
C'è una rivoluzione in nuce, strisciante eppure già esplosa, in tutte le affermazioni del Papa in Germania. E la rivoluzione consiste nella certezza della libertà, nella consapevolezza che l'uomo possa cercare Dio solo con le proprie forze, e che ogni imposizione eteronoma, ogni intervento esterno del “divino” sull'umano, non è che coercizione contraffatta, tentativo di raggiro, coartazione della libertà.

TEMPO DI DARSI DA FARE - Ma veniamo al pragmatismo: in base alle indicazioni del Papa i sedicenti cattolici inerti sono più simili ai pagani degli agnostici impegnati nella ricerca. E allora, cari cattolici, è ora di rialzarsi. Anzi, cari uomini, è ora di ripartire se aspirate a ritornare veri cattolici; perché se ve ne state seduti sulle vostre certezze, sulle rassicurazioni che vi giungono dalla mera appartenenza alla vostra chiesa – che non è la Chiesa di Papa Benedetto – allora siete più distanti da Dio degli illuministi, peccatori, ma angosciati, e perciò “davanti a voi nel Regno dei Cieli”.
Tornare ad essere cattolici, questa volta, non sarà facile. Perché occorrerà pensare, in quanto, come detto, “ ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del proprio orientamento”.
Ciò significa, aspiranti cattolici, che è tempo di tornare alla politica con serietà. Occorre riavvicinarsi alla politica perché l'inerzia determinerebbe il prevalere “delle false leggi del popolo della Scizia”. Ma per portare avanti una politica dei cattolici non basterà affidarsi ai politici “di area cattolica”, semmai non fosse chiaro; perché costoro incarnano l'appiattimento dei credenti routinari, convinti che per appartenere all'“area cattolica” sia sufficiente presentarsi all'Angelus la domenica dopo 'il gran rifiuto' della Sapienza di accogliere il Papa all'università.
E per far politica da cristiani non basta neanche allinearsi alle opinioni tradizionalmente “cattoliche”, perché ogni conservatorismo - finalmente è chiarissimo - è bandito per principio. E allora riflettere, valutare e riconsiderare: rivedere le proprie posizioni sulle coppie di fatto, sul 'fine vita' e sulle tecniche di fecondazione assistita. E poi inventarsi una posizione originale sui temi economici, perché un cristiano potrà pure rifiutarsi di divenire dirigista, ma certe ingiustizie sociali dei giorni nostri - e la prospettiva concreta del loro perpetuarsi – impongono l'invenzione di un nuovo liberismo, di un liberismo più umano. Per la promozione della lotta dell'uomo contro l'uomo sono sufficienti i calvinisti, e speriamo che a breve una sostanziale differenziazione su questo tema segni un netto discrimine tra loro e noi; caso mai – sia detto per inciso - epurando la Chiesa da certe correnti che al protestantesimo sembrano guardare con troppo favore: strizzatina d'occhio che tende all'eresia!
Qui non mi preme proporre ricette, mi basta che sia chiaro che è ora di svegliarsi. Lo dice persino Camus, se il Papa non bastasse.

giovedì 22 settembre 2011

E' TUTTA COLPA MIA


L'eccessiva modestia si rivela spesso la peggior forma di arroganza. Mi perdonerete anche questa volta, se affermo che è tutta colpa mia. Colpa di che cosa? Di tutto. Della crisi economica e della manovra per arginarla; del nostro debito pubblico e dell'impossibilità di appianarlo; del downgrade di Standard&Poor's, della crisi di fiducia dei mercati, del probabile default del sistema-Italia e di tutto il resto. E' colpa mia – e se credete anche vostra, purché scegliate di associarvi alla mia esecrabile immodestia – perché le cause di queste disgrazie erano da anni sotto gli occhi di tutti. Proprio io non ho amici neolaureati, miei coetanei, che abbiano trovato uno straccio di posto di lavoro. Conosco invece qualcuno, un po' più grande di me, che il posto di lavoro l'ha perso, se l'è visto congelato, dimidiato, cassa integrato, sospeso, sostituito o in altro modo calpestato. E poi, mio padre a parte, non vedo un datore di lavoro ormai da anni. Chissà che fine han fatto i vecchi padroni, mai troppo odiati e mai troppo rimpianti... Per di più ho letto, quasi ad aggravare la mia colpa, che le economie asiatiche ci stavano fagocitando, e che quel poco che producevamo era vecchio, inutile o troppo costoso. Eppure confesso che ho continuato a consumare e a “studiare”, ritenendo che un giorno “qualcuno” m'avrebbe assunto. Ho sperato, in definitiva, in qualche fattore esterno capace di garantirmi la sopravvivenza e persino il benessere.
Sbagliavo. Sbagliavo non tanto, e non solo, perché queste speranze si rivelano oggi illusorie, ma soprattutto perché a ben vedere si trattava di auspici informati al più becero egoismo, alla più miope indolenza.
Oggi, accorgendoci che non abbiamo più nessuno con cui prendercela, abbiamo la chance di rifare l'Italia, l'occasione di sentirci all'altezza dei nostri nonni e al di sopra dei nostri padri, spesso “rivoluzionari” a buon mercato. Nella misura in cui riusciremo a ricostruire il Paese, ci riveleremo capaci di risolvere noi stessi: quel groviglio di eroe e bamboccione che ciascuno di noi odia e ama all'eccesso.
Buon lavoro, Ragazzi!

venerdì 2 settembre 2011

FEDE, RAGIONE E SCIENZA: SFIDE "DA UOMINI"


IL CARDINALE RUINI INCONTRA I GIOVANI RICERCATORI DEL D.I.S.F.

Lo scorso 28 maggio il Cardinale Camillo Ruini, Presidente del Comitato per il Progetto Culturale della CEI, ha tenuto presso il Centro Convegni Bonus Pastor di Roma una conferenza pubblica dal titolo "Scienza, ragione e fede: un rapporto sempre in costruzione". La prolusione del Cardinale, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana sino al 2007, ha costituito il momento culminante del quarto workshop annuale del DISF Working Group, un programma di formazione interdisciplinare - coordinato dal Professor Giuseppe Tanzella-Nitti, ordinario di teologia fondamentale - finalizzato ad accrescere la cultura umanistica, filosofica e teologica di giovani laureati che operano nel settore della ricerca scientifica (informazioni al dwg@disf.org). La “due giorni” di quest'anno era dedicata agli "Aspetti filosofici e teologici dell'attività scientifica".
Per descrivere il vincolo che unisce fede e ragione in un unicum inscindibile,  nell'ambito dell'atto umano del credere, Il Cardinal Ruini è ricorso direttamente alle parole di Sant'Agostino: "Nessuno crede qualcosa, se prima non ha pensato che debba essere creduto" (De praedestinatione sanctorum, 25). E ciò vale a fortiori nel campo della religione, poiché la scelta della fede si manifesta come «decisione sul senso ultimo della nostra esistenza, e richiede di esser motivata nel modo più rigoroso possibile, senza sottrarsi alle domande più radicali circa la realtà stessa a cui si crede: in caso contrario - ammonisce il Cardinale - la fede decadrebbe nell'assurdità e nel fanatismo».
Nell'atto di fede, pertanto, la reciproca immanenza del comprendere e del volere - «nel loro vicendevole condizionamento di conoscenza impegnata e di decisione consapevole delle sue motivazioni»  - discende direttamente dai meccanismi euristici e dalle strutture cognitive tipiche della natura umana. In questo senso, e ancor più esplicitamente, il Cardinal Ruini non ha mancato di sottolineare come «in concreto, non crede l'intelletto, né la volontà, ma l'uomo, il soggetto umano nella sua intrinseca unità».
E l'essere umano che crede e spera, destinatario e ricettore del messaggio religioso, è pure il soggetto attivo e il promotore indefesso dello sforzo scientifico, un percorso teoretico che si snoda su un terreno solo parzialmente indipendente da quello tracciato dai contenuti della fede; e ciò, se non altro, in ragione del fatto che l'uomo si avvale, anche nella ricerca scientifica, degli stessi mezzi conoscitivi di cui si serve nell'approcciarsi al mistero di Dio. E' l'essere umano, l'uomo integralmente considerato, dunque, il trait d'union tra fede, ragione e sapere scientifico.
Giovani ricercatori del DISF
Così, ancora nelle parole del Cardinal Ruini, «da una parte va accolta fino in fondo la radicale novità e trascendenza della fede rispetto alla nostra ragione e libertà», ma d'altra parte non si può disconoscere l'esistenza di «una profonda affinità e continuità»  tra le due sfere, «in quanto il soggetto umano, creato a immagine di Dio, è capace della fede in virtù della sua ragione e libertà». Venendo poi alla reciproca interazione tra i due ambiti, e con evidente accenno all'annosa questione dei rapporti tra teologia e scienza, il Cardinale ha fatto riferimento all'insegnamento di Benedetto XVI, affermando che  «la ragione non si risana senza la fede, ma la fede senza la ragione non diventa umana».
Per quanto concerne in particolare la nozione di Dio, cui l'uomo può aver accesso attraverso la filosofia, ma anche mediante gli studi teologici condotti con la luce della fede, Ruini, proseguendo nel suo ragionamento, ha manifestato un'interessante apertura all'idea che «sebbene la fede e la conoscenza razionale di Dio rimangano nettamente e strutturalmente distinte,  bisogna dunque riconoscere che esiste tra loro una profonda e non casuale analogia».
Il Rev. Prof. Giuseppe Tanzella-Nitti, animatore del DISF
Ma la prolusione del Cardinale non è stata informata, di certo, alla semplificazione accomodante o al camuffamento delle criticità e delle contrapposizioni: analogie e convergenze tra fede, scienza e ragione non devono trarre in inganno, magari «suggerendo un circolo vizioso che volesse dimostrare la ragione con la fede e la fede con la ragione. Si tratta piuttosto - avverte conclusivamente Ruini - di tenere presente l'unità del soggetto umano: razionale, libero e credente».

Al termine della conferenza, il relatore si è intrattenuto con i convenuti, rispondendo alle domande del pubblico, costituito in buona parte da giovani ricercatori, alcuni dei quali collegati via Skype da università d'oltreoceano. Il Cardinale ha così incoraggiato ad impiegare con intelligenza i media e i nuovi social networks, veicolo attraverso il quale, al giorno d’oggi, le idee si diffondono e generano dibattito. Non v'è dubbio che il confronto su  un tema classico, e tuttavia sempre attuale, come il rapporto fra fede e ragione, possa giovarsi anche di un uso sapiente delle nuove tecnologie.

Marco Giorgetti

lunedì 27 giugno 2011

Ideali europei: traditi o dimenticati?

Pubblicato su IL CONSULENTE RE on line di Maggio 2011, in occasione della Festa dell'Europa Unita



Schuman legge la sua celebre Dichiarazione
Il 9 maggio 1950, quando lo spettro di un terzo conflitto planetario angosciava il cuore dell’Europa e del mondo intero, Robert Schuman presentava la proposta di creare un'Europa organizzata per il mantenimento di relazioni pacifiche fra gli Stati che la componevano.
Questa proposta, nota come "dichiarazione Schuman", è considerata l'atto di nascita dell'Unione Europea. In quel giorno di maggio del 1950 era stata convocata per le sei del pomeriggio una conferenza stampa presso il Quai d'Orsay di Parigi, sede del Ministero degli Esteri: oggetto dell’incontro una comunicazione di capitale importanza. Le prime righe della dichiarazione del 9 maggio 1950, redatta da Robert Schuman, Ministro degli Affari Esteri francese, in collaborazione con il suo consigliere Jean Monnet, analizzano lucidamente la delicata situazione continentale dell’epoca, e fanno subito cenno ad alcune misure indispensabili per opporsi allo scivolamento verso un conflitto armato: "La pace mondiale non potrebbe essere salvaguardata senza iniziative creative all'altezza dei pericoli che ci minacciano. […] Mettendo in comune talune produzioni di base e istituendo una nuova Alta Autorità le cui decisioni saranno vincolanti per la Francia, la Germania e i Paesi che vi aderiranno, saranno realizzate le prime fondamenta concrete di una federazione europea indispensabile alla salvaguardia della pace".
Alcide De Gasperi
Si proponeva, in sostanza, di dar vita ad un’istituzione sovranazionale cui affidare, con l’accordo di diverse nazioni europee, la gestione delle materie prime su cui all’epoca si fondava ogni potenziale supremazia economico-militare di un Paese a danno degli altri: soprattutto il carbone e l’acciaio. Di qui, infatti, prese avvio la creazione della CECA, Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, madre di tutte le Istituzioni Comunitarie del vecchio continente.

A causa del panorama politico tesissimo all’interno del quale intervenne la celebre “dichiarazione Schuman”, il progetto e lo slancio ideale in essa contenuti divennero ben presto simbolo e cifra dello spirito unitario che si sperava animasse ogni iniziativa promossa dall’Europa Unita e dalle sue diverse istituzioni, che via via sono sorte nel tempo. Infatti, in un vertice tenuto a Milano nel 1985, i capi di Stato e di Governo dei Paesi che allora facevano parte della Comunità Europea, decisero di festeggiare la data del 9 maggio come “Giornata dell'Europa”.

E’ particolarmente significativo che, nell’ottica dei padri fondatori della Comunità Europea, i valori della pace e della concordia tra le nazioni si possano realizzare unicamente grazie allo sviluppo economico e sociale, e cioè attraverso una gestione coordinata e armoniosa delle risorse materiali, al fine di garantire i soli fattori che possano assicurare un livello di qualità della vita omogeneo tra i cittadini dell’Unione e tra le nazioni che ne fanno parte. Mercato ed economia, quindi, per l’Europa non sono che strumenti di pace, di uguaglianza e di benessere sociale – e ciò, è il caso di dirlo, sin dagli albori del movimento unitario che ha condotto alla creazione dell’attuale Unione Europea.

L’Unione Europea dei giorni nostri, tuttavia, si mostra ben lontana dalle aspettative dei suoi padri, Robert Schuman, Jaean Monnet, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi. Il mercato comune appare a molti una sorta di traffico senza regole, in cui si scambia di tutto, avvantaggiandosi dell’anarchia che consente controlli minimi rispetto a quelli che avverrebbero sui mercati nazionali. Inoltre l’UE sembra promuovere politiche che favoriscono l’arricchimento di pochi, con buona pace dell’originario ideale solidarista che ispirò Schuman nella sua dichiarazione. I cittadini dell’Unione appaiono irritati, in particolare, per le operazioni di salvataggio di grandi gruppi bancari che continuano a speculare a loro danno.

Nella prossima sessione dell’Europarlamento a Strasburgo, ad esempio, risulta all’ordine del giorno la discussione di regole più rigide per i lobbisti, misure ritenute necessarie soltanto a seguito dei recenti scandali che hanno coinvolto alcuni eurodeputati, disponibili ad emendare provvedimenti del Parlamento Europeo a favore di lobby private, naturalmente contro versamento di apposite prebende.

Insomma, un festeggiamento realistico e pragmatico della ricorrenza del 9 maggio dovrebbe prevedere ogni anno, tra le varie celebrazioni, il rilancio dei valori fondanti della vecchia Comunità del Carbone e dell’Acciaio: si tratterebbe di un revival provvidenziale, che non potrebbe non contemplare, tra l’altro, un giro di vite nei controlli sulla gestione dei fondi comunitari e sulla correttezza delle prassi che si vanno consolidando all’interno dei diversi Organi dell’Unione, da Strasburgo a Bruxelles, passando per Lussemburgo.

giovedì 26 maggio 2011

Il risparmio in mostra a Milano: un evento per scoprire che raggranelliamo come formiche, ma investiamo come cicale


Pubblicato su Il Consulente Re on-line di Aprile 2011


Dal 6 all’8 Aprile Assogestioni, la Confindustria dei fondi italiani, ha organizzato all’Università Bocconi di Milano il secondo “Salone del Risparmio”, occasione propizia non solo per fare il punto sulla gestione del risparmio degli italiani da parte degli istituti preposti, ma soprattutto per effettuare un sondaggio sulle abitudini finanziarie dei piccoli risparmiatori di casa nostra.
Al centro della manifestazione non solo le consuetudini – vizi e virtù – di investitori e risparmiatori, ma anche le tendenze che informeranno il mercato del risparmio nei prossimi anni; un’analisi di medio termine era infatti suggerita già nel titolo dell’evento: “Opportunità d’investimento nel prossimo decennio”.
Il fatto che, in tempi di crisi economica non ancora superata, si porti all’attenzione del grande pubblico il tema del risparmio costituisce di per sé una notizia. Ma le rivelazioni controintuitive affiorate dai diversi interventi che hanno animato l’evento non sono mancate: si è saputo, ad esempio, che le ricchezze finanziarie detenute dalle famiglie italiane ammontano ad oltre 3.500 miliardi di Euro, vale a dire quasi il doppio del nostro PIL; di questa fortuna, tuttavia, solo 1.000 miliardi sono impegnati a lungo termine in fondi d’investimento, strumenti di previdenza integrativa e polizze di vario genere. E’ come dire che meno di un terzo di quel che risparmiamo contribuisce ad alimentare gli investimenti produttivi dell’industria italiana, o ad assicurare la miglior tenuta di un sistema previdenziale notoriamente in dissesto.
Siamo quindi un paese di formiche, che tuttavia non ha ben chiaro che cosa farsene di quanto faticosamente raggranellato. Deteniamo questo record negativo, in Europa, in compagnia  della sola Spagna.
Come investono allora gli italiani il cospicuo gruzzolo del proprio risparmio? Soprattutto in bond, titoli di debito sulla ricchezza finanziaria – per lo più emessi da banche – ma anche in un piccolo oceano di depositi liquidi, per loro natura scarsamente produttivi. Siamo poi campioni negli investimenti immobiliari: il mattone detenuto nel Belpaese dal settore famiglie raggiunge quasi il 60% del prodotto interno lordo, mentre Francia e Germania si assestano al 40% circa, e gli Stati Uniti si accontentano del 30%. Si tratta anche qui di un retaggio culturale tipicamente italiano, secondo cui la solidità dell’immobile è da privilegiare rispetto alla “volatilità” di investimenti in settori più dinamici, legati al sistema della produzione industriale o della previdenza sociale. E’ uno schema solo in parte virtuoso, che può anche averci tenuto al riparo dalle conseguenze più catastrofiche della crisi economica tutt’ora in corso, ma che non ci aiuterà di certo a ripartire con lo sviluppo economico e quindi con l’occupazione.
E’ perciò necessario spingere gli italiani a riallocare, più sapientemente, le risorse risparmiate; tanto più che dal 2007 ad oggi la propensione al risparmio – cioè la parte di reddito non consumata e quindi accantonata – è scesa di circa un punto percentuale, attestandosi al 13%.   
Occorrerà stimolare il settore famiglie a farsi carico del sistema produttivo e del mondo della previdenza e delle assicurazioni. Per riuscire in questo intento – ha rilevato Domenico Siniscalco, presidente di Assogestioni e quindi patròn dell’evento – bisognerà implementare la connessione, ad oggi labilissima, tra risparmio e mercato. Sarà quindi necessario potenziare il ruolo dei diversi fondi che si fanno carico di raccogliere ricchezza, attualmente improduttiva, per farne il motore dell’economia di domani. Questi molteplici tesoretti di risparmio rappresentano l’unico trait d’union possibile tra mercato e famiglie, e dovranno esser promossi soprattutto a cura delle banche, ma anche di altri organismi istituzionalmente deputati alla gestione in comune del risparmio, come le ormai note SGR, delle quali spesso, e non a caso, le banche stesse sono le principali azioniste.
Le buone intenzioni non saranno tuttavia sufficienti a modificare le abitudini di allocazione del risparmio degli italiani, se non saranno sostenute, sul piano economico, da performance meno deludenti dei nuovi strumenti d’investimento messi  a disposizione dal mercato: nessuno infatti investirà un solo Euro, in un fondo di gestione, finché questo non gli garantirà degli interessi competitivi con quelli che assicurano attualmente i bond, i titoli del debito pubblico e persino il mattone.
Per ottenere il risultato auspicato si è proceduto, quanto meno, alla rimozione degli ostacoli più macroscopici all’effettiva convenienza dell’allocazione del risparmio in fondi produttivi: il decreto mille proroghe prevede infatti che dal prossimo primo Luglio l’aliquota d’imposta sia applicata al sottoscrittore di una quota dei fondi al momento della liquidazione – come già avviene per tutti i fondi esteri – e non al maturare degli interessi, come accade tutt’ora in base alla normativa ormai corretta. Ciò per quanto riguarda il fronte dei risparmiatori, cioè l’offerta di ricchezza accantonata; per quanto concerne invece l’incentivazione della domanda del risparmio, è stata lanciata al Salone di Milano la proposta di offrire alle Società di Gestione che decidessero di stabilirsi e operare in Italia, la facoltà di optare per un sistema impositivo a scelta tra tutti quelli a disposizione in uno dei Paesi dell’Unione Europea. Una sorta di shopping dei regimi fiscali, insomma, teso ad incoraggiare le SGR attualmente operanti all’estero a venire a lavorare in Italia, avendo la garanzia di poter scegliere un sistema fiscale di favore.
Gli sforzi normativi a tutela del mercato del risparmio – e conseguentemente degli investimenti –  non basteranno, però, ad incidere sui vizi dei risparmiatori italiani se non si investirà, in futuro, nella loro educazione finanziaria: il Salone del Risparmio si preoccupa, non a caso, di portare a conoscenza del grande pubblico i nuovi canali di risparmio e d’investimento, affinché ciascuno percepisca la responsabilità, ma anche l’orgoglio, di cooperare nel suo piccolo allo sviluppo economico della nazione.         
                                                                                                                         Marco Giorgetti          

mercoledì 20 aprile 2011

AUGURI ITALIA!

Pubblicato su "Il Consulente Re" on-line di marzo 2011
per il 150° anniversario dell'Unità d'Italia

 
L’ITALIANITA’, TRA SCETTICISMO E INDOLENZA

L’animo italiano non si presta all’adorazione di feticci. Il nostro popolo non si culla di certo tra gli allori di vittorie fittizie imbellettate a guisa di trionfi. La storia ci ha insegnato che le apoteosi nazionaliste non si manifestano quasi mai in epoche beate, contrassegnate da un’estesa fruizione di benessere, libertà e democrazia; abbiamo piuttosto imparato a guardare con sospetto alle tentazioni autocelebrative, a considerare le feste nazionali come canonizzazioni della ragione dei vincitori a danno, se non a beffa, degli interessi dei vinti. Forse i motivi di questo sospetto, di questa diffidenza, risiedono proprio nelle nostre origini, perché a nessuno sfugge che ad un certo pragmatismo – che pure non ci manca – si mescola, nella nostra natura, una sorta di disincanto di fondo, di stampo spiccatamente scettico, che sembra esserci stato consegnato direttamente dai nostri padri greci.
Mi sia concesso un esempio un po’ banale, che però rivela ben più di quanto non manifesti a prima vista: quando nel 2006 vincemmo i mondiali di calcio, l’euforia per il trionfo iridato durò giusto lo spazio di una notte, mentre già all’indomani del grande successo di Berlino fiorirono le polemiche e le dietrologie sulle “reali” dinamiche della vittoria italiana. 
Si disse che la fortuna ci aveva aiutato ben al di là delle speranze più ottimistiche, si fece rilevare che eravamo stati favoriti dal tabellone, che avevamo superato gli ottavi di finale contro l’Australia grazie ad un rigore dubbio, concesso generosamente dall’arbitro in “zona Cesarini”. Poi le analisi critiche si radicalizzarono, secondo quell’andamento iperbolico che conduce spesso i commenti sportivi ad assumere, un po’ goffamente, le sembianze gravi di speculazioni politico-filosofiche: e si disse che in fondo ci eravamo soltanto difesi per un intero mondiale, “all’italiana”, che avevamo davvero giocato soltanto gli scampoli di una sola partita – i tempi supplementari della semifinale contro la Germania – finendo per vincere più per consunzione che non per reali meriti o per determinazione espressa in campo. Infine la vittoria contro la Francia ai rigori, con le consuete ombre che questo metodo di attribuzione del bottino finale lascia sempre nell’animo dei puristi, o dei maliziosi. Alcuni commentatori, infine, increduli della nostra vittoria, si lasciarono andare ad una valutazione globale dal sapore vagamente “esistenzialista”: avevamo vinto in reazione agli scandali giudiziari – la cosiddetta calciopoli – che avevano travolto il mondo del calcio di casa nostra nella stagione precedente all’estate del mondiale; l’animo sornione del calciatore italiano medio, insomma, pungolato nell’orgoglio dal vocio diffamatorio che dava per morto e sepolto il nostro sport nazionale, avrebbe conosciuto un moto d’orgoglio altrimenti inusitato, capace di condurci, è il caso di dirlo, in capo al mondo. Ancora una volta, quindi, lo stereotipo dell’italiano inetto e indolente, che alza la testa solo in presenza di circostanze straordinarie, altrimenti più incline all’ozio, o per lo meno ad una condotta più fiacca e sparagnina.
Ma se tutto ciò emerge di fronte ad un semplice successo sportivo, che si dirà di quel grande trionfo che fu secondo alcuni – per altri, come è ovvio, giusto l’opposto – la nostra storia risorgimentale? Bravi come siamo a piangerci addosso quando tutto va male, e abili, come visto, a dividerci quando vinciamo, in che modo abbiamo metabolizzato le vicende di quella grande affermazione, per lo meno identitaria, rappresentata dalla storia della nostra unificazione nazionale? Al riguardo, i battibecchi degli ultimi tempi circa l’opportunità di festeggiare il giorno del centocinquantesimo dell’unità d’Italia parlano da soli. 
Ma come mai tanto accanimento, e da più parti, nell’osteggiare le celebrazioni?

 IL REVISIONISMO E IL SUO STRUMENTALE UTILIZZO POLITICO

Il revisionismo sul Risorgimento italiano ha una storia lunga e “gloriosa”, almeno altrettanto lunga e “gloriosa” quanto quella che ci separa dagli eventi risorgimentali. L'approccio revisionista riposa sull'assunto che la storiografia non consideri correttamente le ragioni dei vinti, omettendo alcuni aspetti degli accadimenti storici. Si tratta, come si vede, di un punto di vista pernicioso, che rischia di allignare sin troppo bene nell’animo di chi, già per natura, si mostra incline alla divisione, alla diatriba, allo spaccare il capello in quattro pur di non lasciarsi andare – e nemmeno per un giorno in 150 anni – a quella parzialità necessariamente un po’ ingenua, eppure tanto benefica, di cui si alimenta per forza di cose ogni sano patriottismo.                     
I revisionisti di ogni epoca tendono a valutare in modo negativo, rispetto alla storiografia prevalente, personaggi-chiave dell'unità nazionale italiana, quali Camillo Benso di Cavour, Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II di Savoia. Alcuni di essi, innestandosi nel dibattito sulle cause della cosiddetta questione meridionale, sostengono che il Risorgimento sarebbe stato una vera e propria opera di colonizzazione, seguita da una politica di conquista centralizzatrice – la famosa “piemontesizzazione” – a causa della quale il Mezzogiorno italiano sarebbe caduto in uno stato d'arretratezza tuttora evidente. Altri, invece, cavalcano ancora la cosiddetta questione romana, ed enfatizzano i profili critici dei noti avvenimenti del 1870, sottolineando l’illiceità giuridica dell’invasione di uno Stato Sovrano e la riprovevolezza etica dell’aggressione alle prerogative pontificie.   
Le idee revisioniste iniziarono a diffondersi già negli anni immediatamente successivi agli eventi che condussero il Regno di Sardegna a trasformarsi in Regno d'Italia, ancor prima della nascita di un vero e proprio dibattito storiografico in materia. I primi dubbi sui reali moventi della politica estera di Casa Savoia furono sollevati dallo stesso Giuseppe Mazzini, uno dei principali teorici ed artefici dell'unificazione italiana. Mazzini ipotizzò, sul suo giornale "Italia del Popolo", che il governo di Cavour non fosse affatto interessato all’ideale di un'Italia unita, ma più prosaicamente al disegno politico di  allargare i confini dello stato sabaudo. All’indomani dell’unificazione, Mazzini tornò ad attaccare, a tal proposito, il governo della nuova nazione: « Non c'è chi possa comprendere quanto mi senta infelice quando vedo aumentare di anno in anno, sotto un governo materialista e immorale, la corruzione, lo scetticismo sui vantaggi dell'Unità, il dissesto finanziario; e svanire tutto l'avvenire dell'Italia, tutta l'Italia ideale ». 
Il revisionismo sul  risorgimento conobbe un'evidente radicalizzazione a metà del Novecento, dopo la caduta sia della monarchia sabauda che del fascismo, dai quali l’epopea unitaria era considerata un mito intangibile. A tutela di questo mito, ogni volta che un’alta personalità politica moriva, si procedeva ad un attento esame delle sue carte e della corrispondenza privata con il re, in modo da eliminare, e segretare nella Biblioteca Reale, qualunque documento compromettente. Secondo questo metodo, la corrispondenza di Cavour fu massicciamente emendata dalla feroce ostilità nei confronti di Garibaldi e dei democratici, nonché dalle frasi profondamente offensive nei confronti degli italiani. Del resto non è più un mistero per nessuno che Cavour fosse uomo politico accorto e lungimirante, di strettissima osservanza sabauda, ma di sentimenti essenzialmente anticattolici e di gusto aristocratico e filo-francese, di certo non un patriota italiano, né un accorato osservatore dei problemi del nostro meridione. 
E tuttavia non si capisce perché si pretenda di rinvenire la controversa virtù del patriottismo nell’animo di una classe di governanti che si trovò, all’epoca, a capo di una popolazione informe e variegata, contraddistinta dai più microscopici particolarismi, animata da interessi campanilistici, e che si risvegliò da un giorno all’altro riunita sotto il vessillo oscuro di una nazione della quale solo il 2,5% dei nuovi “italiani” parlava la lingua ufficiale, la nostra lingua; mentre Cavour, ovviamente, parlava in francese.
Non si capisce proprio perché mai la limitata convinzione patriottica di chi a suo tempo pose le prime pietre di una nuova nazione, dovrebbe giustificare, oggi, il nostro scarso trasporto nel celebrare la fondazione della casa comune nella quale siamo nati e viviamo: singolare senso della storia quello per cui il senno di poi finisce per legittimare e riproporre, anziché correggere, qualche miopia degli avi.
Tanto più che, a dirla tutta, non furono all’epoca affatto convinti della trovata unitaria nemmeno i nuovi italiani. L’avanzata dell’esercito sabaudo procedé in più parti d’“Italia” tra resistenze strenue da parte delle popolazioni locali – e non mancarono stragi ed eccidi per persuadere i resistenti sulle buone ragioni del nuovo nazionalismo – mentre i famosi plebisciti, attraverso cui si ottenne il consenso degli occupati circa il nuovo regime politico instaurato da quelli che erano considerati semplici invasori, non rappresentarono certo un’adesione di massa al nuovo stato di cose, tanto che ne scaturirono – ad onta del prestato consenso – fenomeni di eversione ben radicati e longevi, quali il brigantaggio e alcune forme di criminalità organizzata.
Massimo D'Azeglio
Ecco come si espresse su quei plebisciti Massimo D’Azeglio, Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna: « A Napoli, noi abbiamo altresì cacciato il sovrano per stabilire un governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono, e sembra che ciò non basti per contenere il Regno, sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti o non briganti, niuno vuol saperne. Ma si dirà: e il suffragio universale? Io non so nulla di suffragio, ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni e che al di là sono necessari. Dunque vi fu qualche errore e bisogna cambiare atti e principi. Bisogna sapere dai Napoletani un'altra volta per tutto se ci vogliono, sì o no. Capisco che gli italiani hanno il diritto di fare la guerra a coloro che volessero mantenere i tedeschi in Italia, ma agli italiani che, restando italiani, non volessero unirsi a noi, credo che non abbiamo il diritto di dare archibugiate, salvo si concedesse ora, per tagliare corto, che noi adottiamo il principio nel cui nome Bomba (Ferdinando) bombardava Palermo, Messina, ecc. Credo bene che in generale non si pensa in questo modo, ma siccome io non intendo rinunciare al diritto di ragionare, dico ciò che penso».
Il Meridione, in genere, non fu trattato con gran riguardo dai nuovi governanti sabaudi: il fenomeno del brigantaggio conobbe una repressione ferocissima, tanto che persino Nino Bixio, uno dei comandanti della spedizione dei Mille e protagonista del discusso episodio della strage di Bronte, denunciò questi metodi in un discorso alla camera il 28 Aprile 1863: « Si è inaugurato nel Mezzogiorno d'Italia un sistema di sangue. E il Governo, cominciando da Ricasoli e venendo sino al ministero Rattazzi, ha sempre lasciato esercitare questo sistema ». I meridionali non furono neppure accolti a braccia aperte nel nuovo parlamento nazionale; ecco che cosa scrive Cavour, in una lettera del dicembre 1860, raccomandando al ministro di grazia e giustizia Giovanni Battista Cassinis di  adoperarsi affinché il numero di napoletani in parlamento fosse il più esiguo possibile: « Mi restringo a pregarlo a fare ogni sforzo onde si acceleri la formazione delle circoscrizioni elettorali, vedendo modo di darci il minor numero di deputati napoletani possibile. Non conviene nasconderci che avremo nel Parlamento a lottare contro un'opposizione formidabile ».

LE RAGIONI DI UNA FESTA

La storia dell’unificazione italiana, insomma, ben lungi dall’apparire un glorioso cammino di riunione fraterna all’interno di un orizzonte di valori e aspirazioni condivise, si rivela essere piuttosto l’esito di un pragmatico disegno di liberazione del nostro territorio nazionale dall’oppressione straniera. Forse si può affermare che, salvo rare eccezioni, nessuno al tempo dell’unità gradisse la soggezione all’Austria o le ingerenze francesi, ma allo stesso tempo in pochissimi auspicavano che la liberazione corrispondesse ad una nuova subalternità al regno sabaudo. Ma stupirsi di una simile difficoltà, dar troppo peso a questa ritrosia da parte delle popolazioni in qualche modo liberate, significa non comprendere le difficoltà che può incontrare un popolo a farsi nazione.
La riottosità di molti uomini dell’epoca risorgimentale ad abbracciare il nuovo progetto di un’Italia libera e unita, tra l’altro, non è di certo argomento che militi a favore delle ragioni di quanti, oggi, sembrano voler mettere in discussione il fondamento politico, sociologico ed ideale di una grande nazione che compie 150 anni.        
Le tesi sulle quali si fondano  le teorie revisioniste appaiono tutte fondate sulla sola constatazione dell’arretratezza economica del sud rispetto al nord, il che, evidentemente, non solo non prova nulla, ma oltretutto svilisce il dibattito sulle ragioni ideali della spinta unitaria, precipitando ogni valutazione politica al livello un po’ triviale della considerazione materiale e del calcolo economico.
La spinta all’unificazione del nostro Paese ha conosciuto un respiro ben più ampio nel petto di coloro che si fecero davvero ideatori e maestri dell’Italia unita. L’orizzonte angusto di quanti oggi pretendono di utilizzare la questione meridionale come emblema di uno scandalo e grimaldello per un’eventuale scissione, non è degno dell’eroismo e della lungimiranza di quanti l’Italia l’hanno fatta o conservata a prezzo del proprio sangue. La miopia di chi strumentalizza una nazione – quand’anche questa fosse ancora soltanto un ideale – per fini politici vili e caduchi, andrebbe quanto meno bollata col marchio infamante del cinismo, cioè del vizio mentale di chi, come suggerisce Oscar Wilde, considera di ogni bene anzitutto il prezzo, e solo secondariamente il valore.
Coloro che invece considerano l’Italia un grande valore, festeggiano oggi i 150 anni della sua unificazione; costoro conoscono bene, dell’Italia, i limiti – anche storici – e ne comprendono le criticità – che spesso di quella storia costituiscono l’inevitabile retaggio – ma affermano di volersi spendere per colmare lo iato tra la realtà e il loro ideale. A quanti invece pretendono che non si festeggi, o che si festeggi in sordina, in ragione del predicato fallimento di quell’idea, infrantasi sul muro robusto della realtà dei fatti, dei dati economici, dei problemi sociali, a costoro diremo che la speranza è degna di una celebrazione più solenne di qualsiasi realtà, perché il valore dell’Italia Unita non merita di pagare il fio delle nostre inadeguatezze.
                                                                                                                 Marco Giorgetti