"C'è la bellezza e ci sono gli umiliati.
Qualunque difficoltà presenti l'impresa, non vorrei mai essere infedele né ai secondi né alla prima" A.C.

venerdì 30 dicembre 2011

TE DEUM

Benedico Te, anche per quest'anno. Ti benedico, che è più che ringraziare, soprattutto per conto di chi si dimentica di farlo.
Ti ringrazio anzitutto per ciò che più mi sfugge: quel che per abitudine dò per scontato.
Ti ringrazio per quello che mi manca, e mi scuso se a volte non metto a frutto il troppo che ho.
Mi scuso pure per la distrazione verso le persone, e per l'incapacità di mostrare i miei affetti.
Perdonami se definisco “senso religioso” la nostra amicizia. E scusami se a chi mi chiede di noi, rispondo che credo ma non pratico più; è un modo ingenuo per rivendicare l'autenticità della mia fiducia, a prescindere da ogni condizionamento; ma non mi sfugge che così Ti sottraggo il mio corpo e parte del mio tempo, e perciò Ti ringrazio anche del senso di colpa, che ancora mi concedi di provare in ragione di questa mancanza.
Ti benedico per il respiro di molti, e Ti “comprendo” nella Tua cura per tutti.
Grazie soprattutto per la lucidità che mi doni, di non venerare il mio dubbio più del Tuo mistero: è lo slancio costante dei miei giorni, attraverso il quale mi metto tra parentesi, e vedo. Così posso dire di vivere solo attraverso di Te, ché sennò sarei prigioniero dell'ombra che io sono. Per questo anziché mille grazie e un diluvio di auguri, mi basta balbettare a Te il mio pensiero irrisolto. Te Deum è la sola invocazione che mi salga alle labbra; e ho già detto tutto.

lunedì 19 dicembre 2011

Il paradosso del diritto naturale. La legittima difesa

Risposta al problem solving del Seminario DISF Working Group del 5 Novembre 2011, per ulteriori considerazioni e approfondimenti sul tema, http://www.disf.org/DWG/111105_ProblemSolved.pdf



La Bioetica, il diritto e la stessa filosofia si rivelano spesso “scienze” impacciate e persino insufficienti nel risolvere coerentemente problemi concreti, pur afferenti al proprio specifico ambito d’indagine. Basti pensare ai problemi di inizio e fine vita, per quanto riguarda la bioetica, oppure, per quanto concerne i problemi giuridici, all’attribuzione di diritti contesi o contendibili, come il riconoscimento delle coppie di fatto omosessuali o l’attribuzione di diritti agli immigrati. Anche l’economia non sfugge a criticità difficilmente riducibili attraverso i soli strumenti propri di quella disciplina: la scelta tra un orientamento dirigista o liberista, ad esempio, è questione che pur afferendo all’ambito economico, finisce per provocare dibattiti e inquietudini di diversa natura, che si potrebbero sbrigativamente ricondurre alla sfera politica in senso lato, ma che corrispondono, in ultima analisi, a interrogativi dal contenuto spiccatamente etico. 
La stessa filosofia, in fondo, continua ad essere investita del compito arduo di fornire le ragioni e lo statuto metafisico di un concetto di “natura” – e di natura umana in particolare – in grado di giustificare il fondamento di un’etica, e conseguentemente di un diritto naturale.

Per quanto riguarda in particolare l’ambito giuridico, l’esempio della legittima difesa è utile a mostrare alcune contraddizioni di fondo, che svelano la parziale incomprensione, da parte del legislatore, di alcuni dei principi ispiratori del nostro sistema penale. Si tratta, a noi sembra, di un’incomprensione fondata sul parziale abbandono di valori legati allo statuto precipuo della persona umana, e quindi al diritto naturale. Ci siamo riferiti al caso concreto della riforma della legittima difesa di qualche anno fa: la ripetizione di un comportamento deviante destò un particolare allarme sociale perché fece temere per il bene comune. Bisogna dire, quindi, che il principio generale – che cioè sussista legittima difesa solo in compresenza di entrambi i requisiti, della proporzionalità fra offesa e difesa e della contestualità delle due condotte – sembrò vacillare perché il contrasto tra bene-vita dell’aggressore e bene-vita dell’aggredito, conflitto cui aveva avuto riguardo il primo legislatore nel prevedere questa specifica causa di giustificazione, si era trasformato nel diverso conflitto tra bene-vita dell’aggressore e bene pubblico, generale, leso dallo stesso allarme sociale destato dall’inflazione, ormai non più accettabile nella percezione comune, dei comportamenti devianti. La pericolosità intrinseca alla ripetizione dei comportamenti devianti, tuttavia, pur reclamando a livello di politica criminale una qualche reazione, non giustifica una minor tutela del bene-vita dei consociati, quand’anche si tratti di uno dei famosi “ladri di villa”. Quando il ladro sia disarmato, dunque, o comunque non porti alcun attacco al bene-vita del rapinato, non si potrà mai riconoscere la sussistenza della legittima difesa allorché quest’ultimo attenti alla vita dell’offensore. Si tratta qui di un problema solo apparentemente giuridico, che in realtà fa appello alla coscienza dei consociati, e soprattutto all’identità giuridica che un’intera società ha scelto per sé. La civiltà del diritto reclama un orizzonte di valori condivisi, che tenga sempre la persona al centro della propria attenzione e della propria tutela: una disciplina più elastica della legittima difesa, violando senza dubbio l’interesse a questa protezione rafforzata, tradirebbe il primo dogma della civiltà del diritto, ed entrerebbe quindi in contraddizione con se stessa; e ciò accadrebbe comunque: sia che la società si autorappresenti come fondata sul diritto naturale, sia che da simili questioni “filosofiche” tenti di affrancarsi.
  Marco Giorgetti

venerdì 16 dicembre 2011

Più in alto: elogio sedizioso di una violenza pacifista

L'alpinismo è una forma di manifestazione di una scelta esistenziale. Che si tratti di affermazione o di semplice protesta, direi che dipende dal modo in cui ciascun alpinista interpreta o intende il proprio gesto. Comunque resta fermo il principio: la scalata sottende un orizzonte di valori che vanno ben al di là dell'impresa sportiva. In questo senso l'alpinismo è una forma di espressione culturale, che mette in gioco tutto l'uomo, il suo essere e la sua capacità di produrre significato.
Direi che l'alpinismo è una forma di violenza necessaria, come la guerra, l'amore o la rivoluzione. E anche in montagna, come in amore e in battaglia, per sopravvivere bisogna vincere; oppure perdere con dignità. Perciò credo che il vero obiettivo dell'alpinismo non sia salire, ma concepire progetti realizzabili e al contempo ambiziosi, e poi concretizzarli seguendo le regole etiche della scalata by fair means.
La parabola dell'alpinismo si rivela in questo modo un grande esercizio di dignità, in cui facoltà caratteristiche dell'uomo - quali l'immaginazione, la ragione e la volontà - vengono esercitate per prevalere sulle forze cieche della natura, ma anche sulle insidie della paura e delle subdole inclinazioni suicide, che talvolta si affacciano alla nostra mente.
Per anni mi sono chiesto quale elemento costituisse il più fiero antagonista dello scalatore: la forza di gravità? La paura? Il vuoto o la sua proiezione mentale? Non saprei dirlo con certezza. Tuttavia, procedendo per esclusione, vorrei chiarire che la forza di gravità altro non è che uno dei presupposti necessari dell'alpinismo. C'è lo scacchiere e si gioca a dama, c'è la gravità e allora si può scalare. 
Per quanto riguarda la paura, direi che ogni neofita dell'alpinismo è solo un atleta, finché prova una paura immobilizzante. Io stesso ho scalato per i primi cinque anni in preda al terrore: tornavo in montagna proprio per provare nuovamente quella paura assoluta e tentare di superarla. Sino a questo stadio, la paura è da intendersi come un automatismo fisiologico ineliminabile, e va quindi paragonata al senso di affaticamento fisico che si prova negli sport aerobici. E se non ti alleni, ad esempio nella corsa, è ben vero che eviterai di stancarti, però non riuscirai a vincere, spostandola in avanti, la tua soglia di affaticamento. Discorso identico vale per la paura: arriva prima o poi il giorno in cui corri senza fiatone, e così c'è anche il momento in cui scali senza paura. Chiariamo: "senza paura" non è del tutto corretto; diciamo che si arriva a scalare senza terrore, senza una paura negativa e immobilizzante, ma bisogna ben guardarsi dall'eliminare un sano timore dal proprio bagaglio cognitivo, finché si sta in montagna. "Chi non ha paura muore una volta sola", diceva Paolo Borsellino: ecco, è proprio quella volta lì che l'alpinista desidera rinviare per quanto possibile. 
Insomma, superato il terrore, secondo me si smette di essere uomini comuni che vanno in montagna, e si diventa alpinisti. L'alpinista è quindi uno che dà per scontata la forza di gravità, che ha sconfitto il terrore, che sfrutta a proprio vantaggio un po' di sana paura, e che lotta ogni giorno contro la paura di essere colto dal terrore. La sola paura dell'alpinista, in fondo, è la paura di aver paura. 
Quanto al vuoto e alla sua proiezione mentale, si tratta di dimensioni che l'alpinista trova esaltanti. Prendiamo l'esempio di un passaggio particolarmente esposto lungo un tiro impegnativo: l'esposizione ti incute un timore che cerchi di contenere sia con espedienti psico-fisiologici, sia attuando contromisure di carattere tecnico: controlli la respirazione, ti ripeti che sei in grado di affrontare quel passaggio, e comunque cerchi di piazzare una buona protezione per limitare i danni di un'eventuale caduta. Dopo di che - se non sei più solo un uomo, ma anche un alpinista - sai che dovrai cavalcare l'irrazionale, tuo migliore alleato. E' allora che ti slanci verso il passaggio, in preda ad uno stato di esaltazione multisensoriale difficilissimo da descrivere. Guardi dall'esterno te stesso che scali in balia del vuoto - quasi non fossi tu ad arrampicare - e al contempo domini il tuo corpo, e ogni centimetro di roccia, con sensibilità potenziata e precisione chirurgica: sono i due risvolti, apparentemente incompatibili eppure così coerenti nel loro paradosso, di una sensazione unica e pressoché inspiegabile, che costituisce la felicità e la droga di ogni alpinista. 
Resta il fatto che l'alpinismo non è attività da "uomini qualunque". L'alpinista è sempre anche, e forse soprattutto, un eroe. Il suo eroismo consiste nella capacità di mettere tra parentesi se stesso - la difesa delle proprie certezze e della propria sopravvivenza biologica - pur di stanare i fantasmi che si nascondono nella propria interiorità. L'alpinista invoca, suscita e provoca il mostro che ogni uomo si porta dentro, e subito si getta a strangolarlo a mani nude; il riscatto autentico dell'alpinista consiste in quest'immagine rinnovata di se stesso: uomo autentico che non rinuncia ad ingaggiare contro i propri limiti una lotta leale, corpo a corpo. 
Ma non si concluda, per ciò solo, che lo scalatore sia allora un egotico solipsista; e nemmeno un rozzo, votato all'agire più che al riflettere. Il falso intellettuale, anzi, suole starsene immobile e ben pasciuto con le mani posate in grembo: sovente è persuaso - giacché egli è per lo più relativista - che la ritenuta indifferenza tra gli opposti gli strizzi l'occhio, assolvendolo dalla sua ignavia. Ma vero filosofo è l'alpinista: a nervi tesi corrode se stesso, certo che la passione che gli arde nel petto lo consumerà, sino a svelargli il reale, proprio al di là di sé; ben oltre quel ingombrante nel quale i vili inciampano e restano imprigionati. Per questo lo scalatore è anche un ottimista: la fiducia nella verità muove guerra ogni giorno al nichilismo che imbriglia gli inetti.
Certo che esiste un uomo buono anche ai piedi delle montagne! Ma se volete propormi un modello di umanità alternativo all'alpinista, per non rischiare portatemi almeno un santo. Un santo, certo, e non un bonaccione: l'umanità si fa attraverso un eroismo che in radice è violento. Si definisce lotta, non a caso, quello sforzo per la conquista della virtù, tipico di chi disdegna l'immobilismo dei benpensanti. Ed è ascetica, cioè rivolta verso l'alto, la lotta dell'umanità; poiché anche l'uomo autentico, come la verità, si trova oltre il Sé, più in alto dei vizi banali dell'Io.                        

giovedì 1 dicembre 2011

Aristotelismo natalizio: quando l’oggetto ideale è un dono materiale


Chi l’ha detto che i regali non sono una cosa seria? Quando lo slancio di un dono si appiattiva sul dovere formalistico di “non presentarsi a mani vuote”, mio nonno dismetteva gote rosse, commozione permanente e il pudore col quale parlava, sempre a mezza bocca, di regali fatti e ricevuti. Cambiava persino la parola, riferendosi allora all’obbligo sociale di trovare “un presente”; mica un regalo.
Quando invece si trattava di un vero dono, tramava per settimane col fare misterioso di chi stesse preparando un attentato. Lo sforzo per assecondare il convincimento del nonno di non essere nemmeno sospettato delle sue macchinazioni, pur non scevro da profili comici, costituiva una fatica drammaturgica estenuante. Per di più, il piano di conquista e consegna di questi regali si preannunciava a volte tanto complesso da suggerirgli di eleggere un complice; si trattava di una designazione ad honorem comunicata in tono grave, e resa ancor meno declinabile dal sottinteso che quella chance di partecipazione ai suoi disegni dovesse costituire quanto meno una lusinga.
Non dimenticherò mai la sensazione di smascheramento, ma al contempo di rassicurante empatia, che provai a vent’anni, quando nonno mi chiese che cosa avessi regalato alla mia ragazza. Certe domande contengono una confessione implicita, e l’imbarazzo che avrei dovuto vincere per rispondere a mio nonno – perdonandolo di aver palesato il sentimentalismo che ci accomuna, e che entrambi ci sforziamo di nascondere con una severità posticcia – mi svelava il senso della parola “virilità”. Replicai in modo evasivo, come si conviene nel dialogo tra coloro che di parole non hanno bisogno: in realtà capii che la amavo solo quando le vidi in dosso quel maglione rosso. Lo avevo cercato per ore, imprecando, in un sabato di dicembre; era naturalmente un pomeriggio di sole, il che aveva contribuito non poco ad acuire la mia stizza. Le persone animate da una passione come la mia, egotica e soverchiante, in fondo non possiedono neppure se stesse: faccio pace con le mie ansie solo quando me ne sto appeso su una sperduta parete rocciosa, magari nei pomeriggi di dicembre in cui la gente suole accalcarsi, senza ragioni, nei centri commerciali delle grandi città. Il mio amore, la mia donna, il tepore del sole invernale sulle mie rocce avevano sempre mosso guerra alle “loro” consuetudini cittadine, ai “loro” doveri sociali, alla “loro” tradizione natalizia: Natale era troppo cibo e qualche regalo; per me la solita dieta, da seguire in quei giorni con maggior fierezza, pareti ghiacciate e la compagnia degli amici di sempre.
Ma lo vidi con chiarezza disarmante, quella sera, che lo schema della mie certezze, rassicurante e banale come lo shopping natalizio, s’era infranto sulla trama, fitta, di quel maglione rosso. L’aveva strappato all’anonimato di una boutique sovraffollata – e di certo pure all’irrefrenabile istinto rapace indotto nelle donne dall’atmosfera del Natale – lo sguardo fiero di lei, felice d’essere avvolta e in qualche modo posseduta dal “nostro” maglione, che io stesso non avevo mai, prima di quell’istante, sentito davvero mio.
Eppure ne avevo lette di pagine sul “dono”:  profluvi di elucubrazioni sterili, ad esempio di Jacques Derrida, che ho sempre apprezzato ma mai stimato fino in fondo. Che un regalo crei un “doppio legame” – come lui sostiene – capace di avvincere donante e donatario in una morsa di doveri morali senza sbocco, è valutazione da contabili dei sentimenti, tanto perspicace se accolta nel suo risvolto metaforico quanto arida sul piano analitico e descrittivo. Quale molesto vincolo obbligatorio celerebbero mai gli occhi lucidi di una donna innamorata, destinataria di un regalo? E chi saprebbe valutare il quantum da restituire?..
Semmai, avrei trovato aderenti al mistero di quegli occhi le pagine di Platone, più orientate a spiegare la dinamica del dono attraverso la nozione di gratuità. Ma si tratta anche qui di un ragionamento disincarnato, in ogni caso riduttivo agli occhi di un giovane innamorato. Persino Platone è poca cosa nel giudizio degli amanti: il sigillo dell’amore è quella specie di estremismo egolatrico, refrattario ad ogni concettualizzazione perché incline a blindare il miracolo di cui si è protagonisti con la strenua difesa dell’idea di eccezionalità. E’ un peccato d’ingenuità, tipico degli innamorati, che solo un cinico potrebbe non perdonare. E  che solo chi non ha mai amato non invidia agli amanti.  
Filosofi e poeti non spiegano che qualche riflesso della vita; i giornalisti, poi, non fanno che svilirla. Infischiatevene delle tronfie analisi dei commentatori sul significato anodino del dono natalizio; fatevi beffa, se credete, dei “saggi” inviti alla sobrietà che i giornali ci rivolgono alla vigilia di questo Natale di crisi.
Donate se avete la chance di fare un regalo, e non siete costretti, anche quest’anno, a trovare solo qualche “pensierino”. Io vi invidierei, nonostante provi un certo pudore nel rimpiangere il sentimento che faceva di un noioso dovere l’occasione per un istante di felicità. Ma in verità rimpiango anche la sapienza di mio nonno, capace per abito caratteriale, e senza alcuna vergogna, di spendersi tanto per un regalo: eccesso simbolico, in grado di riassumere in un piccolo gesto le aspirazioni e le cure di una vita intera.
Anche il più incurabile solipsismo è blandito dalla banale materialità di un dono; custodisco con cura feticista la piccozza che nonno mi regalò quando avevo 14 anni, la gigantografia del Monte Bianco che mi consegnò lei, quella sera, sorridendo dal suo maglione rosso, e pure i vecchi moschettoni che mi regalò il mio compagno di cordata, dono che non feci mai in tempo a ricambiare.