"C'è la bellezza e ci sono gli umiliati.
Qualunque difficoltà presenti l'impresa, non vorrei mai essere infedele né ai secondi né alla prima" A.C.

giovedì 1 dicembre 2011

Aristotelismo natalizio: quando l’oggetto ideale è un dono materiale


Chi l’ha detto che i regali non sono una cosa seria? Quando lo slancio di un dono si appiattiva sul dovere formalistico di “non presentarsi a mani vuote”, mio nonno dismetteva gote rosse, commozione permanente e il pudore col quale parlava, sempre a mezza bocca, di regali fatti e ricevuti. Cambiava persino la parola, riferendosi allora all’obbligo sociale di trovare “un presente”; mica un regalo.
Quando invece si trattava di un vero dono, tramava per settimane col fare misterioso di chi stesse preparando un attentato. Lo sforzo per assecondare il convincimento del nonno di non essere nemmeno sospettato delle sue macchinazioni, pur non scevro da profili comici, costituiva una fatica drammaturgica estenuante. Per di più, il piano di conquista e consegna di questi regali si preannunciava a volte tanto complesso da suggerirgli di eleggere un complice; si trattava di una designazione ad honorem comunicata in tono grave, e resa ancor meno declinabile dal sottinteso che quella chance di partecipazione ai suoi disegni dovesse costituire quanto meno una lusinga.
Non dimenticherò mai la sensazione di smascheramento, ma al contempo di rassicurante empatia, che provai a vent’anni, quando nonno mi chiese che cosa avessi regalato alla mia ragazza. Certe domande contengono una confessione implicita, e l’imbarazzo che avrei dovuto vincere per rispondere a mio nonno – perdonandolo di aver palesato il sentimentalismo che ci accomuna, e che entrambi ci sforziamo di nascondere con una severità posticcia – mi svelava il senso della parola “virilità”. Replicai in modo evasivo, come si conviene nel dialogo tra coloro che di parole non hanno bisogno: in realtà capii che la amavo solo quando le vidi in dosso quel maglione rosso. Lo avevo cercato per ore, imprecando, in un sabato di dicembre; era naturalmente un pomeriggio di sole, il che aveva contribuito non poco ad acuire la mia stizza. Le persone animate da una passione come la mia, egotica e soverchiante, in fondo non possiedono neppure se stesse: faccio pace con le mie ansie solo quando me ne sto appeso su una sperduta parete rocciosa, magari nei pomeriggi di dicembre in cui la gente suole accalcarsi, senza ragioni, nei centri commerciali delle grandi città. Il mio amore, la mia donna, il tepore del sole invernale sulle mie rocce avevano sempre mosso guerra alle “loro” consuetudini cittadine, ai “loro” doveri sociali, alla “loro” tradizione natalizia: Natale era troppo cibo e qualche regalo; per me la solita dieta, da seguire in quei giorni con maggior fierezza, pareti ghiacciate e la compagnia degli amici di sempre.
Ma lo vidi con chiarezza disarmante, quella sera, che lo schema della mie certezze, rassicurante e banale come lo shopping natalizio, s’era infranto sulla trama, fitta, di quel maglione rosso. L’aveva strappato all’anonimato di una boutique sovraffollata – e di certo pure all’irrefrenabile istinto rapace indotto nelle donne dall’atmosfera del Natale – lo sguardo fiero di lei, felice d’essere avvolta e in qualche modo posseduta dal “nostro” maglione, che io stesso non avevo mai, prima di quell’istante, sentito davvero mio.
Eppure ne avevo lette di pagine sul “dono”:  profluvi di elucubrazioni sterili, ad esempio di Jacques Derrida, che ho sempre apprezzato ma mai stimato fino in fondo. Che un regalo crei un “doppio legame” – come lui sostiene – capace di avvincere donante e donatario in una morsa di doveri morali senza sbocco, è valutazione da contabili dei sentimenti, tanto perspicace se accolta nel suo risvolto metaforico quanto arida sul piano analitico e descrittivo. Quale molesto vincolo obbligatorio celerebbero mai gli occhi lucidi di una donna innamorata, destinataria di un regalo? E chi saprebbe valutare il quantum da restituire?..
Semmai, avrei trovato aderenti al mistero di quegli occhi le pagine di Platone, più orientate a spiegare la dinamica del dono attraverso la nozione di gratuità. Ma si tratta anche qui di un ragionamento disincarnato, in ogni caso riduttivo agli occhi di un giovane innamorato. Persino Platone è poca cosa nel giudizio degli amanti: il sigillo dell’amore è quella specie di estremismo egolatrico, refrattario ad ogni concettualizzazione perché incline a blindare il miracolo di cui si è protagonisti con la strenua difesa dell’idea di eccezionalità. E’ un peccato d’ingenuità, tipico degli innamorati, che solo un cinico potrebbe non perdonare. E  che solo chi non ha mai amato non invidia agli amanti.  
Filosofi e poeti non spiegano che qualche riflesso della vita; i giornalisti, poi, non fanno che svilirla. Infischiatevene delle tronfie analisi dei commentatori sul significato anodino del dono natalizio; fatevi beffa, se credete, dei “saggi” inviti alla sobrietà che i giornali ci rivolgono alla vigilia di questo Natale di crisi.
Donate se avete la chance di fare un regalo, e non siete costretti, anche quest’anno, a trovare solo qualche “pensierino”. Io vi invidierei, nonostante provi un certo pudore nel rimpiangere il sentimento che faceva di un noioso dovere l’occasione per un istante di felicità. Ma in verità rimpiango anche la sapienza di mio nonno, capace per abito caratteriale, e senza alcuna vergogna, di spendersi tanto per un regalo: eccesso simbolico, in grado di riassumere in un piccolo gesto le aspirazioni e le cure di una vita intera.
Anche il più incurabile solipsismo è blandito dalla banale materialità di un dono; custodisco con cura feticista la piccozza che nonno mi regalò quando avevo 14 anni, la gigantografia del Monte Bianco che mi consegnò lei, quella sera, sorridendo dal suo maglione rosso, e pure i vecchi moschettoni che mi regalò il mio compagno di cordata, dono che non feci mai in tempo a ricambiare.

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