"C'è la bellezza e ci sono gli umiliati.
Qualunque difficoltà presenti l'impresa, non vorrei mai essere infedele né ai secondi né alla prima" A.C.

martedì 31 gennaio 2012

In morte di Oscar Luigi Scalfaro

Oscar Luigi Scalfaro. Non mi è stato simpatico proprio mai. Non ho amato i suoi ribaltoni, la legge sulla par condicio e il suo stile democristiano: dalla campagna contro il divorzio a certi episodi che ne delineano il profilo di cattolico un po’ bigotto. 
Non mi piace nemmeno la sua biografia, il suo esser stato prima magistrato, sotto il fascismo, poi partigiano e comunque, sempre, anticomunista per ragioni religiose; il che non gli ha impedito, ad ogni modo, di passare alla storia come uomo di sinistra. Tutto ciò la dice lunga sulle sue capacità di sfuggire sempre agli schemi, di sottrarsi alle definizioni: e questo, secondo me, è un gran difetto per un politico.
Tuttavia, ritengo che si possa dire tutto il peggio di un personaggio pubblico, ma non quando questi muore. Lasciate che vi confidi che cosa penso, ad esempio, di quanto è stato scritto intorno a Scalfaro su “Il Giornale” in occasione della sua morte: sono state critiche e giudizi volgari e squallidi.
Un politico si può biasimare e criticare finché è in vita, per tentare di correggerne i difetti e sottrargli consenso; si può riprovare e accusare pure a qualche anno dalla morte, per rispolverare la verità sul suo conto e consegnarla alla storia. Ma quando un politico muore ha il diritto di esser riguardato, almeno per qualche giorno, semplicemente come uomo. La nostra società rischia altrimenti di dimenticare che cosa sia la pietas, la stessa virtù che ci consiglia di rendere onore ai defunti, e di non vilipendere enti inanimati, eppure quasi sacri, come i cadaveri e la bandiera; e anche, sia detto per inciso, di non abbandonare i nostri padri negli ospizi.
Perciò, mentre un coro triviale di giudici impietosi si leva ad infierire sulle spoglie di Scalfaro, io che pure sono sempre stato critico nei suoi confronti, lo ricordo così: se ne stava in piedi, in fondo alla navata di sinistra, alla messa delle dodici e mezza presso la Chiesa del Gesù. Tutti i giorni. Non so che fede avesse, ma non posso dimenticare il suo contegno dignitoso nel prendere la Comunione, mai per primo né per ultimo, quasi per non dare nell’occhio. Un istante dopo la benedizione, abbandonava la cripta delle celebrazioni, e si rifugiava nella cappella del Santissimo per qualche istante di ringraziamento. Lo incrociavo spesso nella navata centrale, mentre entrambi ci dirigevamo verso l’uscita; mi salutava per primo, particolare che a volte quasi mi commuoveva, ammonendomi sulla necessità di non giudicare mai gli uomini, di riferirne per quanto possibile i pregi, di esaltarne le virtù e di chiudere un occhio sui difetti.
Oscar Luigi Scalfaro, il politico, non mi è stato simpatico proprio mai; tuttavia oggi rimpiango il mite vecchietto che per anni ho incontrato ogni giorno alla messa della mezza, presso la Chiesa del Gesù, e che non mi dava mai il tempo di salutarlo per primo. Riposi in pace, anche in beffa alla misera ostinazione dei giornalisti.

giovedì 26 gennaio 2012

MILLE GIORNI

Slide show sull'Aquila,
a mille giorni dal sisma del 6 Aprile 2009

Dedicato a Gioggiò

mercoledì 25 gennaio 2012

Costa Concordia: una metafora costruttiva



La stampa italiana sostiene che ci siamo ricoperti di ridicolo, a livello internazionale, con questa storia del naufragio della Concordia. Pensavo anch’io che ci fosse da vergognarsi per una figuraccia simile. Ritenevo che si dovesse riflettere a fondo sulle ragioni di una leggerezza e di un’irresponsabilità tanto pervicaci, da legittimare e sdoganare, per così dire, una pratica becera e oziosa come quella dell’“inchino”; poi abbiamo appreso che quei “passaggi radenti” rappresentavano addirittura una tecnica pubblicitaria, ideata dalla ‘casa madre’: allora in molti hanno iniziato a sospettare che non si trattasse di un’eccezione sconosciuta alla Guardia Costiera, ma di una consuetudine tacitamente accettata dalle Autorità marittime.
Ciò non toglie che io trovo riprovevole – e ho biasimato anche pubblicamente – l’istituzione immediata di un parallelo tra la triste vicenda della Costa Concordia e l’Italia del nostro tempo. Ho letto articoli davvero ridicoli, in cui si paragonava l’intero sistema-Italia all’atteggiamento prima scriteriato e bontempone, poi persino vigliacco e pusillanime, del Capitano Schettino. Trovo esecrabili gli editoriali che indulgendo alle generalizzazioni più acritiche, pretendono di dipingerci come un popolo di smidollati senza criterio e senza onore: commenti tanto più odiosi quando appaiano, a firma di giornalisti italiani, su testate straniere e in lingua straniera… absit iniuria verbis. Il fatto è che certa stampa galoppa sull’onda dell’emotività, ed è innegabile che le metafore della nave che affonda, del capitano che scappa e dei francesi che ridono alle nostre spalle, di questi tempi, ci calzino a pennello. Tuttavia – come accadeva ai tempi della scuola, in cui non cavalcare un doppio senso sfuggito alla professoressa ci costava ben più della probabile punizione conseguente – c’è un tempo in cui vale la pena resistere a certe tentazioni. Un’epoca in cui mezza Europa ci tiene d’occhio, squadrandoci con una certa diffidenza, è forse il momento migliore per smetterla di riderci addosso. Non che io consideri pericolosa l’autoironia, dico solo che non tutti sono all’altezza di comprenderla. Da ragazzino facevo sempre lo scemo, camuffando con un atteggiamento ilare e scherzoso il mio eccesso di sicurezza e le crisi generate da un ragionare continuo e contorto, forse anche da una 'prematura maturità'; bè, non mancava mai nelle compagnie che frequentavo l’ingenuotto – di solito un cicciottello comandino, spesso il capetto della truppa –  che finiva per giudicarmi davvero cretino. Ora, posso aprirmi quanto volete al dubbio che alla fin fine non fossi un genio – del resto, pur ragionando retrospettivamente, non si scorge il giorno in cui lo diventai, giacché con tutta evidenza non lo sono – ma mi rimane il sospetto che a furia di scherzare, si finisca per convincere almeno gli idioti che siamo davvero un po’ leggerotti. 
A questo punto, non è per offendere nessuno, ma se pensate ad esempio a Sarkozy, non trovate probabile che da bambino avesse qualche chiletto in più, che tendesse ad assumere nel suo gruppo un ruolo di leadership?.. Ecco, ci siamo capiti. Il fatto è che amo visceralmente l’Italia, e quando la vedo anche solo appena appena vilipesa, soffro come se si offendesse mia madre: che differenza c’è fra mamma nostra e l’Italia? Allora lo capiamo benissimo: uno svampito che centra l’Isola del Giglio con un transatlantico può essere una comica pazzesca o un dramma nazionale; ma giacché ci sono dei morti e si rischia una catastrofe ambientale, affrontare la cosa a slogan, battutine, magliette e articoli autoironici – che so, sul Financial Times… – non mi pare il sistema migliore per convincere la Merkel della nostra serietà, e per farle sganciare qualche soldo… C’è un tempo in cui si può scherzare e fare battutacce, un momento in cui l’ironia e l’autoironia sono comprese e benaccette; ma poi viene l’ora in cui si studia, in cui ci s’ingegna per crescere e diventare migliori. Non importa che nel profondo agogniamo la ricreazione; non conta nemmeno il particolare che in realtà consideriamo la ricreazione il succo della scuola, e dei semplici idioti i secchioni del primo banco, convinti che la versione di greco sia più importante della più bella della classe. Non ci piove che noi siamo i geni dell’ultimo banco, troppo consapevoli per applicarci più del minimo, e troppo svegli per non essere i migliori; tuttavia c’è un tempo in cui vale la pena di fingersi seri, per convincere la prof che lo siamo davvero… e per far sì che la nostra ironia non si trasformi in cinismo amaro.

giovedì 12 gennaio 2012

La metafisica esistenzialista, un progetto che non si definisce

Costruii l'impianto fondamentale di questo articolo a 23 anni, fresco di studi filosofici. Alcune delle riflessioni contenute in queste righe mi sembrano tanto convincenti e resistenti alla prova del tempo - nonostante il mutamento di molte situazioni e di altrettante idee - che m'è parso il caso di rimaneggiarle, per clistallizzarle in un post. E chissà che prima o poi non ci ritorni, magari riaprendo 'Essere e Tempo' o lo 'Zarathustra'... 

Analizzando le posizioni della corrente atea dell’esistenzialismo, in particolare gli esiti della speculazione di Heidegger e di Sartre intorno al problema del rapporto tra finitudine e trascendenza nell’uomo, si ricevono immediatamente due impressioni dominanti, ciascuna riconducibile ad una precisa matrice filosofica: in primo luogo il riferimento costante a quel “senso tragico” dell’esistenza umana inaugurato da Nietzsche; poi, non meno ricorrente, il continuo ammiccamento ad un soggettivismo vagamente relativista, di gusto dichiaratamente cartesiano. Inoltre non mi pare casuale che i condizionamenti culturali appena menzionati afferiscano proprio ai due formanti centrali del carattere problematico dell’esperienza umana, che potrebbero definirsi rispettivamente la questione esistenziale e la questione metafisico-noetica. Mi si perdoni l’accostamento probabilmente un po’ ardito dei termini “metafisco” e “noetico” sotto la formula di un’unica grande problematica; tuttavia mi sembra che mai come nel caso dell’esistenzialismo, l’accoglimento forse un po’ acritico delle proposte gnoseologiche di Cartesio prima e di Kant poi, unitamente al conseguente parziale fraintendimento delle posizioni fenomenologiche, abbiano precluso il cammino verso una soddisfacente radicalizzazione degli interrogativi sull’essere, e quindi l’approdo ad una visione stricto sensu metafisica. Pertanto ho utilizzato il suffisso “noetico” in coda al termine “metafisico”, quasi per smorzare l’intensità e l’onerosità di quest’ultimo, in quanto non credo di poter ritenere che il pensiero esistenzialista abbia in sé maturato, contrariamente agli intendimenti dello stesso Heidegger, un’autentica consapevolezza metafisica sul “mondo” e sull’uomo.
Martin Heidegger
Ancor più drasticamente, si potrebbe affermare che l’insufficiente coscienza metafisica di Heidegger e Sartre proietti la sua ombra pure sul loro modo d’intendere ed affrontare la domanda sull’esistenza, intesa come modo di essere proprio dell’uomo. Sarebbe facile convincersi del fatto che questo secondo vizio derivi dal primo, secondo lo stesso vincolo di necessità che sempre lega gli errori sul metodo alla non piena comprensione delle caratteristiche dell’oggetto del proprio studio. 
Friedrich Nietzsche
Ciò nonostante, mi sembrerebbe poco aderente alla realtà affermare che, in particolar modo in Heidegger, la lente esistenzialista sia stata applicata all’analisi di un uomo per così dire già metafisicamente assimilato: piuttosto ho la sensazione che nella speculazione heideggeriana la questione esistenziale s’imponga con impellente priorità rispetto ad una serena riflessione metafisica. Perciò credo che il proclamato sbiadire dell’interrogativo ontologico nella vacua superfetazione ontica non corrisponda all’intuizione di più ampi orizzonti metafisici - i soli ritenuti autenticamente ontologici - ma semmai ad una resa della ragione dinanzi all’incalzante dramma esistenziale, già tutto contenuto nel nietzscheano annuncio della morte di Dio; annuncio non a caso da Heidegger recepito, ma convertito con diplomazia, forse un po’ laconica, nella presa di coscienza della semplice assenza di Dio. E però quest’assenza, in Heidegger, non è di certo una forma di lavacro della coscienza dalla macchia indelebile di quell’assassinio - del quale invece Nietzsche si era assunto tutta la responsabilità - ma al contrario il titolo di un reato ancor più grave a carico dell’umanità: la colpa dell’oblio. Ed è significativo il fatto che quest’oblio dell’essere si specchi nell’oblio di Dio stesso, come a denunciare comunque, al fondo della speculazione heideggeriana, una sorta di precomprensione, o di  tacita consapevolezza, della radicalità della questione metafisica. Peccato solo che la soluzione al quesito ontologico venga cercata da Heidegger non nell’ente, nelle “cose stesse” verrebbe da dire, ma in un’improbabile analisi della peculiare condizione umana; non c’è da stupirsi allora che l’uomo heideggeriano, dimentico della ricchezza e della profondità dell’essere, incapace di condurre perciò un’esistenza autentica, e abbandonato alla solitudine desolante dell’assenza di Dio, risponda agli interrogativi esistenziali che gli vengon posti, con dignitosa ma amareggiata mestizia.
E’ l’“esser-colpevoli”, dunque, l’esistenziale forse troppo patetico - e ciò non di meno il più onesto nella prospettiva dell'autore - che caratterizza la visione heideggeriana dell’umana condizione: solo alla luce di questo esistenziale mi pare che diventino più comprensibili anche gli altri, in particolare l’esser-gettato” e l’essere-per-la-morte”. Con ciò, vorrei insinuare che l’intera attività speculativa di Heidegger sia sempre condizionata da una soverchiante tensione sentimentale, malinconica e a volte persino lacerante, la quale pur nuocendo alla perspicuità metafisica della sua riflessione - nonché all’organicità del suo impianto esistenzialista - costituisce però una rassicurante reazione al monolitico sistema hegeliano, al contrario troppo baldanzoso nel suo altéro intellettualismo.
Così credo di poter sostenere che l’esistenzialismo heideggeriano non rappresenti altro che la maturazione e l’assimilazione degli stessi drammi della vita dell’uomo moderno sui quali si era affacciato già Nietzsche, non senza un certo cinismo, magari inconsapevole. Non pùo meravigliare, pertanto, la ricorrenza pervasiva di certi temi-chiave nell’uno come nell’altro autore: ad esempio la “temporalità apparente” di Nietzsche, che dà corpo alla “Temporalitat”  heideggeriana, o il nietzscheano “nichilismo positivo”, che precorre in qualche modo l’esistenziale del “zum-Tode-sein”, però inteso da Nietzsche - a differenza di Heidegger e probabilmente con percezione pressoché allucinata - come una dionisiaca “volontà di potenza”.
Allora sembra potersi attribuire alle differenti sensibilità degli autori - e forse anche alla loro appartenenza a diverse epoche storiche, contraddistinta per Heidegger dall'esperienza degli esiti tragici del decostruttivismo metafisico moderno - lo sviluppo in termini antitetici dei medesimi spunti di riflessione. Infatti l’esistenza ebbra e irresponsabile del super-uomo nietzscheano, colpevole dell’assassinio di Dio e non per questo meno fiero della propria rinnovata dignità nella solitudine dell’universo muto, rimane contrassegnata da una forma perversa di attivismo tracotante e sconsiderato: la morale non può trovarvi posto e l’agire umano, quintessenza dell’esistere, si trasforma in un “gioco tragico” stigmatizzato dalla pena del non-senso. Una strisciante ipocrisia mi sembra si celi nel tentativo di perpetuare, attraverso la teorica dell’eterno ritorno dell’uguale”, il non-senso dell’attimo presente, volendogli così artificiosamente conferire una significatività che esso non può possedere già per iniziale ammissione.

lunedì 9 gennaio 2012

In un teatro di Milano escrementi sull'immagine di Gesù!!!

Tratto dalle info di Antonello Cannarozzo, Rai Vaticano


Se durante uno spettacolo teatrale fossero rivolti dagli attori oltraggi ad una gigantografia di Gesù presente sulla scena, e alla fine della performance venissero gettati anche degli escrementi su quell’immagine, un cattolico avrebbe il diritto di sentirsi offeso e perciò di reagire, oppure dovrebbe accettare tutto questo come “arte”?
Ciò è accaduto - nell’assordante silenzio della nostra laica e democratica stampa - lo scorso dicembre, in un teatro della “civilissima” Parigi. La trama della commedia, dal titolo beffardo “Sul concetto di Volto nel Figlio di Dio” - scritta e diretta da un certo Romeo Castellucci - denuncia la solitudine e la degradazione dell’uomo di fronte alla vecchiaia, alla malattia e all’abbandono di Dio.
Ed ecco, allora, il colpo di genio dell’autore: nella seconda parte della rappresentazione, il palcoscenico viene letteralmente cosparso di escrementi (degna metafora di quest’opera) per mostrare l’estrema degradazione umana. Poi, senza dire una parola, salgono in scena dei ragazzi, che si chinano a raccogliere queste feci per lanciarle, come si fa in un tiro a segno, sul volto di Gesù, rappresentato nel capolavoro di Antonello da Messina. Alla fine di quest’azione, sull’immagine ormai completamente imbrattata cala un velo nero con la scritta: “You are not my shepherd” (“Tu non sei il mio pastore”).
Bene, l’indecoroso spettacolo di cui si parla, andrà in scena anche a Milano, a partire dal prossimo 28 Gennaio, presso il Teatro Parenti.
Indignatevi – e va bene – strappatevi le vesti – purché non in pubblico – ma soprattutto manifestate la vostra contrarietà a questo spettacolo indecente e non curante di un sentimento religioso ancora diffuso nella nostra società. Se non avete tempo e voglia di andare a manifestare di fronte al Teatro Parenti, almeno rompete le scatole a chi di dovere, con una valanga di e-mail e telefonate di protesta. Ecco gli indirizzi ai quali rivolgere le proprie civili lamentele contro l’incivile “spettacolo” che si terrà fra meno di venti giorni:
Teatro Parenti, sede degli spettacoli: via Pier Lombardo 14 - 20135 Milano. Sede degli uffici: via Vasari 15 – 20135 Milano. Segreteria di Direzione tel. 02/59995220 martinamoretti@teatrofrancoparenti.it

Sindaco di Milano, tel. Centralino unico  02.02.02 sindaco.pisapia@comune.milano.it

Arcivescovo di Milano, Cardinal Scola: Piazza Fontana 2 – 20122 Milano. Tel. 02/85561
webmaster@chiesadimilano.it