"C'è la bellezza e ci sono gli umiliati.
Qualunque difficoltà presenti l'impresa, non vorrei mai essere infedele né ai secondi né alla prima" A.C.

giovedì 22 settembre 2011

E' TUTTA COLPA MIA


L'eccessiva modestia si rivela spesso la peggior forma di arroganza. Mi perdonerete anche questa volta, se affermo che è tutta colpa mia. Colpa di che cosa? Di tutto. Della crisi economica e della manovra per arginarla; del nostro debito pubblico e dell'impossibilità di appianarlo; del downgrade di Standard&Poor's, della crisi di fiducia dei mercati, del probabile default del sistema-Italia e di tutto il resto. E' colpa mia – e se credete anche vostra, purché scegliate di associarvi alla mia esecrabile immodestia – perché le cause di queste disgrazie erano da anni sotto gli occhi di tutti. Proprio io non ho amici neolaureati, miei coetanei, che abbiano trovato uno straccio di posto di lavoro. Conosco invece qualcuno, un po' più grande di me, che il posto di lavoro l'ha perso, se l'è visto congelato, dimidiato, cassa integrato, sospeso, sostituito o in altro modo calpestato. E poi, mio padre a parte, non vedo un datore di lavoro ormai da anni. Chissà che fine han fatto i vecchi padroni, mai troppo odiati e mai troppo rimpianti... Per di più ho letto, quasi ad aggravare la mia colpa, che le economie asiatiche ci stavano fagocitando, e che quel poco che producevamo era vecchio, inutile o troppo costoso. Eppure confesso che ho continuato a consumare e a “studiare”, ritenendo che un giorno “qualcuno” m'avrebbe assunto. Ho sperato, in definitiva, in qualche fattore esterno capace di garantirmi la sopravvivenza e persino il benessere.
Sbagliavo. Sbagliavo non tanto, e non solo, perché queste speranze si rivelano oggi illusorie, ma soprattutto perché a ben vedere si trattava di auspici informati al più becero egoismo, alla più miope indolenza.
Oggi, accorgendoci che non abbiamo più nessuno con cui prendercela, abbiamo la chance di rifare l'Italia, l'occasione di sentirci all'altezza dei nostri nonni e al di sopra dei nostri padri, spesso “rivoluzionari” a buon mercato. Nella misura in cui riusciremo a ricostruire il Paese, ci riveleremo capaci di risolvere noi stessi: quel groviglio di eroe e bamboccione che ciascuno di noi odia e ama all'eccesso.
Buon lavoro, Ragazzi!

venerdì 2 settembre 2011

FEDE, RAGIONE E SCIENZA: SFIDE "DA UOMINI"


IL CARDINALE RUINI INCONTRA I GIOVANI RICERCATORI DEL D.I.S.F.

Lo scorso 28 maggio il Cardinale Camillo Ruini, Presidente del Comitato per il Progetto Culturale della CEI, ha tenuto presso il Centro Convegni Bonus Pastor di Roma una conferenza pubblica dal titolo "Scienza, ragione e fede: un rapporto sempre in costruzione". La prolusione del Cardinale, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana sino al 2007, ha costituito il momento culminante del quarto workshop annuale del DISF Working Group, un programma di formazione interdisciplinare - coordinato dal Professor Giuseppe Tanzella-Nitti, ordinario di teologia fondamentale - finalizzato ad accrescere la cultura umanistica, filosofica e teologica di giovani laureati che operano nel settore della ricerca scientifica (informazioni al dwg@disf.org). La “due giorni” di quest'anno era dedicata agli "Aspetti filosofici e teologici dell'attività scientifica".
Per descrivere il vincolo che unisce fede e ragione in un unicum inscindibile,  nell'ambito dell'atto umano del credere, Il Cardinal Ruini è ricorso direttamente alle parole di Sant'Agostino: "Nessuno crede qualcosa, se prima non ha pensato che debba essere creduto" (De praedestinatione sanctorum, 25). E ciò vale a fortiori nel campo della religione, poiché la scelta della fede si manifesta come «decisione sul senso ultimo della nostra esistenza, e richiede di esser motivata nel modo più rigoroso possibile, senza sottrarsi alle domande più radicali circa la realtà stessa a cui si crede: in caso contrario - ammonisce il Cardinale - la fede decadrebbe nell'assurdità e nel fanatismo».
Nell'atto di fede, pertanto, la reciproca immanenza del comprendere e del volere - «nel loro vicendevole condizionamento di conoscenza impegnata e di decisione consapevole delle sue motivazioni»  - discende direttamente dai meccanismi euristici e dalle strutture cognitive tipiche della natura umana. In questo senso, e ancor più esplicitamente, il Cardinal Ruini non ha mancato di sottolineare come «in concreto, non crede l'intelletto, né la volontà, ma l'uomo, il soggetto umano nella sua intrinseca unità».
E l'essere umano che crede e spera, destinatario e ricettore del messaggio religioso, è pure il soggetto attivo e il promotore indefesso dello sforzo scientifico, un percorso teoretico che si snoda su un terreno solo parzialmente indipendente da quello tracciato dai contenuti della fede; e ciò, se non altro, in ragione del fatto che l'uomo si avvale, anche nella ricerca scientifica, degli stessi mezzi conoscitivi di cui si serve nell'approcciarsi al mistero di Dio. E' l'essere umano, l'uomo integralmente considerato, dunque, il trait d'union tra fede, ragione e sapere scientifico.
Giovani ricercatori del DISF
Così, ancora nelle parole del Cardinal Ruini, «da una parte va accolta fino in fondo la radicale novità e trascendenza della fede rispetto alla nostra ragione e libertà», ma d'altra parte non si può disconoscere l'esistenza di «una profonda affinità e continuità»  tra le due sfere, «in quanto il soggetto umano, creato a immagine di Dio, è capace della fede in virtù della sua ragione e libertà». Venendo poi alla reciproca interazione tra i due ambiti, e con evidente accenno all'annosa questione dei rapporti tra teologia e scienza, il Cardinale ha fatto riferimento all'insegnamento di Benedetto XVI, affermando che  «la ragione non si risana senza la fede, ma la fede senza la ragione non diventa umana».
Per quanto concerne in particolare la nozione di Dio, cui l'uomo può aver accesso attraverso la filosofia, ma anche mediante gli studi teologici condotti con la luce della fede, Ruini, proseguendo nel suo ragionamento, ha manifestato un'interessante apertura all'idea che «sebbene la fede e la conoscenza razionale di Dio rimangano nettamente e strutturalmente distinte,  bisogna dunque riconoscere che esiste tra loro una profonda e non casuale analogia».
Il Rev. Prof. Giuseppe Tanzella-Nitti, animatore del DISF
Ma la prolusione del Cardinale non è stata informata, di certo, alla semplificazione accomodante o al camuffamento delle criticità e delle contrapposizioni: analogie e convergenze tra fede, scienza e ragione non devono trarre in inganno, magari «suggerendo un circolo vizioso che volesse dimostrare la ragione con la fede e la fede con la ragione. Si tratta piuttosto - avverte conclusivamente Ruini - di tenere presente l'unità del soggetto umano: razionale, libero e credente».

Al termine della conferenza, il relatore si è intrattenuto con i convenuti, rispondendo alle domande del pubblico, costituito in buona parte da giovani ricercatori, alcuni dei quali collegati via Skype da università d'oltreoceano. Il Cardinale ha così incoraggiato ad impiegare con intelligenza i media e i nuovi social networks, veicolo attraverso il quale, al giorno d’oggi, le idee si diffondono e generano dibattito. Non v'è dubbio che il confronto su  un tema classico, e tuttavia sempre attuale, come il rapporto fra fede e ragione, possa giovarsi anche di un uso sapiente delle nuove tecnologie.

Marco Giorgetti

lunedì 27 giugno 2011

Ideali europei: traditi o dimenticati?

Pubblicato su IL CONSULENTE RE on line di Maggio 2011, in occasione della Festa dell'Europa Unita



Schuman legge la sua celebre Dichiarazione
Il 9 maggio 1950, quando lo spettro di un terzo conflitto planetario angosciava il cuore dell’Europa e del mondo intero, Robert Schuman presentava la proposta di creare un'Europa organizzata per il mantenimento di relazioni pacifiche fra gli Stati che la componevano.
Questa proposta, nota come "dichiarazione Schuman", è considerata l'atto di nascita dell'Unione Europea. In quel giorno di maggio del 1950 era stata convocata per le sei del pomeriggio una conferenza stampa presso il Quai d'Orsay di Parigi, sede del Ministero degli Esteri: oggetto dell’incontro una comunicazione di capitale importanza. Le prime righe della dichiarazione del 9 maggio 1950, redatta da Robert Schuman, Ministro degli Affari Esteri francese, in collaborazione con il suo consigliere Jean Monnet, analizzano lucidamente la delicata situazione continentale dell’epoca, e fanno subito cenno ad alcune misure indispensabili per opporsi allo scivolamento verso un conflitto armato: "La pace mondiale non potrebbe essere salvaguardata senza iniziative creative all'altezza dei pericoli che ci minacciano. […] Mettendo in comune talune produzioni di base e istituendo una nuova Alta Autorità le cui decisioni saranno vincolanti per la Francia, la Germania e i Paesi che vi aderiranno, saranno realizzate le prime fondamenta concrete di una federazione europea indispensabile alla salvaguardia della pace".
Alcide De Gasperi
Si proponeva, in sostanza, di dar vita ad un’istituzione sovranazionale cui affidare, con l’accordo di diverse nazioni europee, la gestione delle materie prime su cui all’epoca si fondava ogni potenziale supremazia economico-militare di un Paese a danno degli altri: soprattutto il carbone e l’acciaio. Di qui, infatti, prese avvio la creazione della CECA, Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, madre di tutte le Istituzioni Comunitarie del vecchio continente.

A causa del panorama politico tesissimo all’interno del quale intervenne la celebre “dichiarazione Schuman”, il progetto e lo slancio ideale in essa contenuti divennero ben presto simbolo e cifra dello spirito unitario che si sperava animasse ogni iniziativa promossa dall’Europa Unita e dalle sue diverse istituzioni, che via via sono sorte nel tempo. Infatti, in un vertice tenuto a Milano nel 1985, i capi di Stato e di Governo dei Paesi che allora facevano parte della Comunità Europea, decisero di festeggiare la data del 9 maggio come “Giornata dell'Europa”.

E’ particolarmente significativo che, nell’ottica dei padri fondatori della Comunità Europea, i valori della pace e della concordia tra le nazioni si possano realizzare unicamente grazie allo sviluppo economico e sociale, e cioè attraverso una gestione coordinata e armoniosa delle risorse materiali, al fine di garantire i soli fattori che possano assicurare un livello di qualità della vita omogeneo tra i cittadini dell’Unione e tra le nazioni che ne fanno parte. Mercato ed economia, quindi, per l’Europa non sono che strumenti di pace, di uguaglianza e di benessere sociale – e ciò, è il caso di dirlo, sin dagli albori del movimento unitario che ha condotto alla creazione dell’attuale Unione Europea.

L’Unione Europea dei giorni nostri, tuttavia, si mostra ben lontana dalle aspettative dei suoi padri, Robert Schuman, Jaean Monnet, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi. Il mercato comune appare a molti una sorta di traffico senza regole, in cui si scambia di tutto, avvantaggiandosi dell’anarchia che consente controlli minimi rispetto a quelli che avverrebbero sui mercati nazionali. Inoltre l’UE sembra promuovere politiche che favoriscono l’arricchimento di pochi, con buona pace dell’originario ideale solidarista che ispirò Schuman nella sua dichiarazione. I cittadini dell’Unione appaiono irritati, in particolare, per le operazioni di salvataggio di grandi gruppi bancari che continuano a speculare a loro danno.

Nella prossima sessione dell’Europarlamento a Strasburgo, ad esempio, risulta all’ordine del giorno la discussione di regole più rigide per i lobbisti, misure ritenute necessarie soltanto a seguito dei recenti scandali che hanno coinvolto alcuni eurodeputati, disponibili ad emendare provvedimenti del Parlamento Europeo a favore di lobby private, naturalmente contro versamento di apposite prebende.

Insomma, un festeggiamento realistico e pragmatico della ricorrenza del 9 maggio dovrebbe prevedere ogni anno, tra le varie celebrazioni, il rilancio dei valori fondanti della vecchia Comunità del Carbone e dell’Acciaio: si tratterebbe di un revival provvidenziale, che non potrebbe non contemplare, tra l’altro, un giro di vite nei controlli sulla gestione dei fondi comunitari e sulla correttezza delle prassi che si vanno consolidando all’interno dei diversi Organi dell’Unione, da Strasburgo a Bruxelles, passando per Lussemburgo.

giovedì 26 maggio 2011

Il risparmio in mostra a Milano: un evento per scoprire che raggranelliamo come formiche, ma investiamo come cicale


Pubblicato su Il Consulente Re on-line di Aprile 2011


Dal 6 all’8 Aprile Assogestioni, la Confindustria dei fondi italiani, ha organizzato all’Università Bocconi di Milano il secondo “Salone del Risparmio”, occasione propizia non solo per fare il punto sulla gestione del risparmio degli italiani da parte degli istituti preposti, ma soprattutto per effettuare un sondaggio sulle abitudini finanziarie dei piccoli risparmiatori di casa nostra.
Al centro della manifestazione non solo le consuetudini – vizi e virtù – di investitori e risparmiatori, ma anche le tendenze che informeranno il mercato del risparmio nei prossimi anni; un’analisi di medio termine era infatti suggerita già nel titolo dell’evento: “Opportunità d’investimento nel prossimo decennio”.
Il fatto che, in tempi di crisi economica non ancora superata, si porti all’attenzione del grande pubblico il tema del risparmio costituisce di per sé una notizia. Ma le rivelazioni controintuitive affiorate dai diversi interventi che hanno animato l’evento non sono mancate: si è saputo, ad esempio, che le ricchezze finanziarie detenute dalle famiglie italiane ammontano ad oltre 3.500 miliardi di Euro, vale a dire quasi il doppio del nostro PIL; di questa fortuna, tuttavia, solo 1.000 miliardi sono impegnati a lungo termine in fondi d’investimento, strumenti di previdenza integrativa e polizze di vario genere. E’ come dire che meno di un terzo di quel che risparmiamo contribuisce ad alimentare gli investimenti produttivi dell’industria italiana, o ad assicurare la miglior tenuta di un sistema previdenziale notoriamente in dissesto.
Siamo quindi un paese di formiche, che tuttavia non ha ben chiaro che cosa farsene di quanto faticosamente raggranellato. Deteniamo questo record negativo, in Europa, in compagnia  della sola Spagna.
Come investono allora gli italiani il cospicuo gruzzolo del proprio risparmio? Soprattutto in bond, titoli di debito sulla ricchezza finanziaria – per lo più emessi da banche – ma anche in un piccolo oceano di depositi liquidi, per loro natura scarsamente produttivi. Siamo poi campioni negli investimenti immobiliari: il mattone detenuto nel Belpaese dal settore famiglie raggiunge quasi il 60% del prodotto interno lordo, mentre Francia e Germania si assestano al 40% circa, e gli Stati Uniti si accontentano del 30%. Si tratta anche qui di un retaggio culturale tipicamente italiano, secondo cui la solidità dell’immobile è da privilegiare rispetto alla “volatilità” di investimenti in settori più dinamici, legati al sistema della produzione industriale o della previdenza sociale. E’ uno schema solo in parte virtuoso, che può anche averci tenuto al riparo dalle conseguenze più catastrofiche della crisi economica tutt’ora in corso, ma che non ci aiuterà di certo a ripartire con lo sviluppo economico e quindi con l’occupazione.
E’ perciò necessario spingere gli italiani a riallocare, più sapientemente, le risorse risparmiate; tanto più che dal 2007 ad oggi la propensione al risparmio – cioè la parte di reddito non consumata e quindi accantonata – è scesa di circa un punto percentuale, attestandosi al 13%.   
Occorrerà stimolare il settore famiglie a farsi carico del sistema produttivo e del mondo della previdenza e delle assicurazioni. Per riuscire in questo intento – ha rilevato Domenico Siniscalco, presidente di Assogestioni e quindi patròn dell’evento – bisognerà implementare la connessione, ad oggi labilissima, tra risparmio e mercato. Sarà quindi necessario potenziare il ruolo dei diversi fondi che si fanno carico di raccogliere ricchezza, attualmente improduttiva, per farne il motore dell’economia di domani. Questi molteplici tesoretti di risparmio rappresentano l’unico trait d’union possibile tra mercato e famiglie, e dovranno esser promossi soprattutto a cura delle banche, ma anche di altri organismi istituzionalmente deputati alla gestione in comune del risparmio, come le ormai note SGR, delle quali spesso, e non a caso, le banche stesse sono le principali azioniste.
Le buone intenzioni non saranno tuttavia sufficienti a modificare le abitudini di allocazione del risparmio degli italiani, se non saranno sostenute, sul piano economico, da performance meno deludenti dei nuovi strumenti d’investimento messi  a disposizione dal mercato: nessuno infatti investirà un solo Euro, in un fondo di gestione, finché questo non gli garantirà degli interessi competitivi con quelli che assicurano attualmente i bond, i titoli del debito pubblico e persino il mattone.
Per ottenere il risultato auspicato si è proceduto, quanto meno, alla rimozione degli ostacoli più macroscopici all’effettiva convenienza dell’allocazione del risparmio in fondi produttivi: il decreto mille proroghe prevede infatti che dal prossimo primo Luglio l’aliquota d’imposta sia applicata al sottoscrittore di una quota dei fondi al momento della liquidazione – come già avviene per tutti i fondi esteri – e non al maturare degli interessi, come accade tutt’ora in base alla normativa ormai corretta. Ciò per quanto riguarda il fronte dei risparmiatori, cioè l’offerta di ricchezza accantonata; per quanto concerne invece l’incentivazione della domanda del risparmio, è stata lanciata al Salone di Milano la proposta di offrire alle Società di Gestione che decidessero di stabilirsi e operare in Italia, la facoltà di optare per un sistema impositivo a scelta tra tutti quelli a disposizione in uno dei Paesi dell’Unione Europea. Una sorta di shopping dei regimi fiscali, insomma, teso ad incoraggiare le SGR attualmente operanti all’estero a venire a lavorare in Italia, avendo la garanzia di poter scegliere un sistema fiscale di favore.
Gli sforzi normativi a tutela del mercato del risparmio – e conseguentemente degli investimenti –  non basteranno, però, ad incidere sui vizi dei risparmiatori italiani se non si investirà, in futuro, nella loro educazione finanziaria: il Salone del Risparmio si preoccupa, non a caso, di portare a conoscenza del grande pubblico i nuovi canali di risparmio e d’investimento, affinché ciascuno percepisca la responsabilità, ma anche l’orgoglio, di cooperare nel suo piccolo allo sviluppo economico della nazione.         
                                                                                                                         Marco Giorgetti          

mercoledì 20 aprile 2011

AUGURI ITALIA!

Pubblicato su "Il Consulente Re" on-line di marzo 2011
per il 150° anniversario dell'Unità d'Italia

 
L’ITALIANITA’, TRA SCETTICISMO E INDOLENZA

L’animo italiano non si presta all’adorazione di feticci. Il nostro popolo non si culla di certo tra gli allori di vittorie fittizie imbellettate a guisa di trionfi. La storia ci ha insegnato che le apoteosi nazionaliste non si manifestano quasi mai in epoche beate, contrassegnate da un’estesa fruizione di benessere, libertà e democrazia; abbiamo piuttosto imparato a guardare con sospetto alle tentazioni autocelebrative, a considerare le feste nazionali come canonizzazioni della ragione dei vincitori a danno, se non a beffa, degli interessi dei vinti. Forse i motivi di questo sospetto, di questa diffidenza, risiedono proprio nelle nostre origini, perché a nessuno sfugge che ad un certo pragmatismo – che pure non ci manca – si mescola, nella nostra natura, una sorta di disincanto di fondo, di stampo spiccatamente scettico, che sembra esserci stato consegnato direttamente dai nostri padri greci.
Mi sia concesso un esempio un po’ banale, che però rivela ben più di quanto non manifesti a prima vista: quando nel 2006 vincemmo i mondiali di calcio, l’euforia per il trionfo iridato durò giusto lo spazio di una notte, mentre già all’indomani del grande successo di Berlino fiorirono le polemiche e le dietrologie sulle “reali” dinamiche della vittoria italiana. 
Si disse che la fortuna ci aveva aiutato ben al di là delle speranze più ottimistiche, si fece rilevare che eravamo stati favoriti dal tabellone, che avevamo superato gli ottavi di finale contro l’Australia grazie ad un rigore dubbio, concesso generosamente dall’arbitro in “zona Cesarini”. Poi le analisi critiche si radicalizzarono, secondo quell’andamento iperbolico che conduce spesso i commenti sportivi ad assumere, un po’ goffamente, le sembianze gravi di speculazioni politico-filosofiche: e si disse che in fondo ci eravamo soltanto difesi per un intero mondiale, “all’italiana”, che avevamo davvero giocato soltanto gli scampoli di una sola partita – i tempi supplementari della semifinale contro la Germania – finendo per vincere più per consunzione che non per reali meriti o per determinazione espressa in campo. Infine la vittoria contro la Francia ai rigori, con le consuete ombre che questo metodo di attribuzione del bottino finale lascia sempre nell’animo dei puristi, o dei maliziosi. Alcuni commentatori, infine, increduli della nostra vittoria, si lasciarono andare ad una valutazione globale dal sapore vagamente “esistenzialista”: avevamo vinto in reazione agli scandali giudiziari – la cosiddetta calciopoli – che avevano travolto il mondo del calcio di casa nostra nella stagione precedente all’estate del mondiale; l’animo sornione del calciatore italiano medio, insomma, pungolato nell’orgoglio dal vocio diffamatorio che dava per morto e sepolto il nostro sport nazionale, avrebbe conosciuto un moto d’orgoglio altrimenti inusitato, capace di condurci, è il caso di dirlo, in capo al mondo. Ancora una volta, quindi, lo stereotipo dell’italiano inetto e indolente, che alza la testa solo in presenza di circostanze straordinarie, altrimenti più incline all’ozio, o per lo meno ad una condotta più fiacca e sparagnina.
Ma se tutto ciò emerge di fronte ad un semplice successo sportivo, che si dirà di quel grande trionfo che fu secondo alcuni – per altri, come è ovvio, giusto l’opposto – la nostra storia risorgimentale? Bravi come siamo a piangerci addosso quando tutto va male, e abili, come visto, a dividerci quando vinciamo, in che modo abbiamo metabolizzato le vicende di quella grande affermazione, per lo meno identitaria, rappresentata dalla storia della nostra unificazione nazionale? Al riguardo, i battibecchi degli ultimi tempi circa l’opportunità di festeggiare il giorno del centocinquantesimo dell’unità d’Italia parlano da soli. 
Ma come mai tanto accanimento, e da più parti, nell’osteggiare le celebrazioni?

 IL REVISIONISMO E IL SUO STRUMENTALE UTILIZZO POLITICO

Il revisionismo sul Risorgimento italiano ha una storia lunga e “gloriosa”, almeno altrettanto lunga e “gloriosa” quanto quella che ci separa dagli eventi risorgimentali. L'approccio revisionista riposa sull'assunto che la storiografia non consideri correttamente le ragioni dei vinti, omettendo alcuni aspetti degli accadimenti storici. Si tratta, come si vede, di un punto di vista pernicioso, che rischia di allignare sin troppo bene nell’animo di chi, già per natura, si mostra incline alla divisione, alla diatriba, allo spaccare il capello in quattro pur di non lasciarsi andare – e nemmeno per un giorno in 150 anni – a quella parzialità necessariamente un po’ ingenua, eppure tanto benefica, di cui si alimenta per forza di cose ogni sano patriottismo.                     
I revisionisti di ogni epoca tendono a valutare in modo negativo, rispetto alla storiografia prevalente, personaggi-chiave dell'unità nazionale italiana, quali Camillo Benso di Cavour, Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II di Savoia. Alcuni di essi, innestandosi nel dibattito sulle cause della cosiddetta questione meridionale, sostengono che il Risorgimento sarebbe stato una vera e propria opera di colonizzazione, seguita da una politica di conquista centralizzatrice – la famosa “piemontesizzazione” – a causa della quale il Mezzogiorno italiano sarebbe caduto in uno stato d'arretratezza tuttora evidente. Altri, invece, cavalcano ancora la cosiddetta questione romana, ed enfatizzano i profili critici dei noti avvenimenti del 1870, sottolineando l’illiceità giuridica dell’invasione di uno Stato Sovrano e la riprovevolezza etica dell’aggressione alle prerogative pontificie.   
Le idee revisioniste iniziarono a diffondersi già negli anni immediatamente successivi agli eventi che condussero il Regno di Sardegna a trasformarsi in Regno d'Italia, ancor prima della nascita di un vero e proprio dibattito storiografico in materia. I primi dubbi sui reali moventi della politica estera di Casa Savoia furono sollevati dallo stesso Giuseppe Mazzini, uno dei principali teorici ed artefici dell'unificazione italiana. Mazzini ipotizzò, sul suo giornale "Italia del Popolo", che il governo di Cavour non fosse affatto interessato all’ideale di un'Italia unita, ma più prosaicamente al disegno politico di  allargare i confini dello stato sabaudo. All’indomani dell’unificazione, Mazzini tornò ad attaccare, a tal proposito, il governo della nuova nazione: « Non c'è chi possa comprendere quanto mi senta infelice quando vedo aumentare di anno in anno, sotto un governo materialista e immorale, la corruzione, lo scetticismo sui vantaggi dell'Unità, il dissesto finanziario; e svanire tutto l'avvenire dell'Italia, tutta l'Italia ideale ». 
Il revisionismo sul  risorgimento conobbe un'evidente radicalizzazione a metà del Novecento, dopo la caduta sia della monarchia sabauda che del fascismo, dai quali l’epopea unitaria era considerata un mito intangibile. A tutela di questo mito, ogni volta che un’alta personalità politica moriva, si procedeva ad un attento esame delle sue carte e della corrispondenza privata con il re, in modo da eliminare, e segretare nella Biblioteca Reale, qualunque documento compromettente. Secondo questo metodo, la corrispondenza di Cavour fu massicciamente emendata dalla feroce ostilità nei confronti di Garibaldi e dei democratici, nonché dalle frasi profondamente offensive nei confronti degli italiani. Del resto non è più un mistero per nessuno che Cavour fosse uomo politico accorto e lungimirante, di strettissima osservanza sabauda, ma di sentimenti essenzialmente anticattolici e di gusto aristocratico e filo-francese, di certo non un patriota italiano, né un accorato osservatore dei problemi del nostro meridione. 
E tuttavia non si capisce perché si pretenda di rinvenire la controversa virtù del patriottismo nell’animo di una classe di governanti che si trovò, all’epoca, a capo di una popolazione informe e variegata, contraddistinta dai più microscopici particolarismi, animata da interessi campanilistici, e che si risvegliò da un giorno all’altro riunita sotto il vessillo oscuro di una nazione della quale solo il 2,5% dei nuovi “italiani” parlava la lingua ufficiale, la nostra lingua; mentre Cavour, ovviamente, parlava in francese.
Non si capisce proprio perché mai la limitata convinzione patriottica di chi a suo tempo pose le prime pietre di una nuova nazione, dovrebbe giustificare, oggi, il nostro scarso trasporto nel celebrare la fondazione della casa comune nella quale siamo nati e viviamo: singolare senso della storia quello per cui il senno di poi finisce per legittimare e riproporre, anziché correggere, qualche miopia degli avi.
Tanto più che, a dirla tutta, non furono all’epoca affatto convinti della trovata unitaria nemmeno i nuovi italiani. L’avanzata dell’esercito sabaudo procedé in più parti d’“Italia” tra resistenze strenue da parte delle popolazioni locali – e non mancarono stragi ed eccidi per persuadere i resistenti sulle buone ragioni del nuovo nazionalismo – mentre i famosi plebisciti, attraverso cui si ottenne il consenso degli occupati circa il nuovo regime politico instaurato da quelli che erano considerati semplici invasori, non rappresentarono certo un’adesione di massa al nuovo stato di cose, tanto che ne scaturirono – ad onta del prestato consenso – fenomeni di eversione ben radicati e longevi, quali il brigantaggio e alcune forme di criminalità organizzata.
Massimo D'Azeglio
Ecco come si espresse su quei plebisciti Massimo D’Azeglio, Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna: « A Napoli, noi abbiamo altresì cacciato il sovrano per stabilire un governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono, e sembra che ciò non basti per contenere il Regno, sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti o non briganti, niuno vuol saperne. Ma si dirà: e il suffragio universale? Io non so nulla di suffragio, ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni e che al di là sono necessari. Dunque vi fu qualche errore e bisogna cambiare atti e principi. Bisogna sapere dai Napoletani un'altra volta per tutto se ci vogliono, sì o no. Capisco che gli italiani hanno il diritto di fare la guerra a coloro che volessero mantenere i tedeschi in Italia, ma agli italiani che, restando italiani, non volessero unirsi a noi, credo che non abbiamo il diritto di dare archibugiate, salvo si concedesse ora, per tagliare corto, che noi adottiamo il principio nel cui nome Bomba (Ferdinando) bombardava Palermo, Messina, ecc. Credo bene che in generale non si pensa in questo modo, ma siccome io non intendo rinunciare al diritto di ragionare, dico ciò che penso».
Il Meridione, in genere, non fu trattato con gran riguardo dai nuovi governanti sabaudi: il fenomeno del brigantaggio conobbe una repressione ferocissima, tanto che persino Nino Bixio, uno dei comandanti della spedizione dei Mille e protagonista del discusso episodio della strage di Bronte, denunciò questi metodi in un discorso alla camera il 28 Aprile 1863: « Si è inaugurato nel Mezzogiorno d'Italia un sistema di sangue. E il Governo, cominciando da Ricasoli e venendo sino al ministero Rattazzi, ha sempre lasciato esercitare questo sistema ». I meridionali non furono neppure accolti a braccia aperte nel nuovo parlamento nazionale; ecco che cosa scrive Cavour, in una lettera del dicembre 1860, raccomandando al ministro di grazia e giustizia Giovanni Battista Cassinis di  adoperarsi affinché il numero di napoletani in parlamento fosse il più esiguo possibile: « Mi restringo a pregarlo a fare ogni sforzo onde si acceleri la formazione delle circoscrizioni elettorali, vedendo modo di darci il minor numero di deputati napoletani possibile. Non conviene nasconderci che avremo nel Parlamento a lottare contro un'opposizione formidabile ».

LE RAGIONI DI UNA FESTA

La storia dell’unificazione italiana, insomma, ben lungi dall’apparire un glorioso cammino di riunione fraterna all’interno di un orizzonte di valori e aspirazioni condivise, si rivela essere piuttosto l’esito di un pragmatico disegno di liberazione del nostro territorio nazionale dall’oppressione straniera. Forse si può affermare che, salvo rare eccezioni, nessuno al tempo dell’unità gradisse la soggezione all’Austria o le ingerenze francesi, ma allo stesso tempo in pochissimi auspicavano che la liberazione corrispondesse ad una nuova subalternità al regno sabaudo. Ma stupirsi di una simile difficoltà, dar troppo peso a questa ritrosia da parte delle popolazioni in qualche modo liberate, significa non comprendere le difficoltà che può incontrare un popolo a farsi nazione.
La riottosità di molti uomini dell’epoca risorgimentale ad abbracciare il nuovo progetto di un’Italia libera e unita, tra l’altro, non è di certo argomento che militi a favore delle ragioni di quanti, oggi, sembrano voler mettere in discussione il fondamento politico, sociologico ed ideale di una grande nazione che compie 150 anni.        
Le tesi sulle quali si fondano  le teorie revisioniste appaiono tutte fondate sulla sola constatazione dell’arretratezza economica del sud rispetto al nord, il che, evidentemente, non solo non prova nulla, ma oltretutto svilisce il dibattito sulle ragioni ideali della spinta unitaria, precipitando ogni valutazione politica al livello un po’ triviale della considerazione materiale e del calcolo economico.
La spinta all’unificazione del nostro Paese ha conosciuto un respiro ben più ampio nel petto di coloro che si fecero davvero ideatori e maestri dell’Italia unita. L’orizzonte angusto di quanti oggi pretendono di utilizzare la questione meridionale come emblema di uno scandalo e grimaldello per un’eventuale scissione, non è degno dell’eroismo e della lungimiranza di quanti l’Italia l’hanno fatta o conservata a prezzo del proprio sangue. La miopia di chi strumentalizza una nazione – quand’anche questa fosse ancora soltanto un ideale – per fini politici vili e caduchi, andrebbe quanto meno bollata col marchio infamante del cinismo, cioè del vizio mentale di chi, come suggerisce Oscar Wilde, considera di ogni bene anzitutto il prezzo, e solo secondariamente il valore.
Coloro che invece considerano l’Italia un grande valore, festeggiano oggi i 150 anni della sua unificazione; costoro conoscono bene, dell’Italia, i limiti – anche storici – e ne comprendono le criticità – che spesso di quella storia costituiscono l’inevitabile retaggio – ma affermano di volersi spendere per colmare lo iato tra la realtà e il loro ideale. A quanti invece pretendono che non si festeggi, o che si festeggi in sordina, in ragione del predicato fallimento di quell’idea, infrantasi sul muro robusto della realtà dei fatti, dei dati economici, dei problemi sociali, a costoro diremo che la speranza è degna di una celebrazione più solenne di qualsiasi realtà, perché il valore dell’Italia Unita non merita di pagare il fio delle nostre inadeguatezze.
                                                                                                                 Marco Giorgetti 

martedì 29 marzo 2011

Governativi in ritirata si mescolano alla popolazione civile: presto impossibili i raid dal cielo. Si spera nel tradimento dei Warfalla

Non siamo ancora a Sirte, come qualcuno aveva annunciato ottimisticamente nella mattinata di ieri. Gli shabab, i ragazzi delle bande ribelli, hanno incalzato i governativi sino ad Al Assun. I resistenti mantengono la posizione finché possono, tanto più che i ribelli non cercano mai lo scontro armato; ma poi arrivano dal cielo i raid degli alleati francesi e inglesi, e allora i Warfalla, sfiancati e ormai privi di mezzi blindati, ripiegano alla chetichella in direzione del centro abitato più vicino, nel quale tornare ad asserragliarsi.
Siamo arrivati così a 80 kilometri da Sirte, città simbolo del potere di Gheddafi, che è nato in quella provincia, nella quale risiede la sua tribù. La presa di Sirte sarebbe quindi un gran colpo per i ribelli, soprattutto sul piano simbolico, ma per ora gli shabab sembrano insabbiati qui ad Al Assun, e l’immagine di una tonnara che si vada stringendo intorno ai governativi sarebbe davvero fuorviante.
 
Più ci si avvicina a Sirte, infatti, più le forze governative in ritirata si mescolano alla popolazione civile, il che renderà sempre più difficili, se non proprio inattuabili, le incursioni alleate dal cielo. Insomma, la rete dei ribelli avanza, e la sua bocca si stringe serrando la linea dei governativi in file sempre più fiacche e disarmate, ma man mano che retrocede il banco dei Warfalla inghiotte, inglobandole, miriadi di case abitate da civili inermi. Facile immaginare che giunti a Tripoli i governativi si barricheranno ovunque, neutralizzando il vantaggio militare degli insorti, costituito sin ora dal supporto delle forze aeree alleate.
La situazione minaccia di volgere allo stallo, e se qualcuno in Europa spera nel buon esito degli sforzi diplomatici nei confronti del rais, in Libia si punta sulla diserzione delle tribù adesso alleate di Gheddafi. La radio della Libia libera, infatti, lancia appelli ai Warfalla, i resistenti della più importante tribù del paese, che non è sempre stata amica del rais, e dal quale ha subito spesso ingiustizie.
   La redazione di "Radio Free Lybia"

Si auspica che il ricordo di queste prepotenze riaffiori, consigliando ai governativi di arrendersi e abbandonare Gheddafi al suo destino, che sembra ormai già scritto. Si spera insomma nella congiura di palazzo: accelererebbe la fine della guerra e risparmierebbe molte vite umane.





mercoledì 23 marzo 2011

Immigrati e fatica di regolarizzarsi

Pubblicato su "Il Consulente Re" on-line di Febbraio 2011   


Diceva Henry Ford che “c’è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti”. Se ciò è vero, l’informatizzazione della procedura di regolarizzazione dei  lavoratori extracomunitari immigrati in Italia non rappresenta ancora un esempio di progresso compiuto.   
Il 31 gennaio e il 2 e 3 febbraio scorsi, si sono svolti i cosiddetti click day, le giornate in cui – in ossequio alle previsioni dell’ultimo Decreto flussi approvato dal Consiglio dei Ministri – i cittadini extracomunitari che hanno trovato lavoro nel nostro Paese potevano inviare, per via telematica agli uffici del Viminale, le richieste per regolarizzare la propria permanenza in Italia.
In sostanza, collegandosi al sito del Ministero dell’Interno, i datori di lavoro hanno avuto la possibilità di seguire una procedura guidata finalizzata alla messa in regola dei propri dipendenti stranieri. Il click day non è che la versione computerizzata delle estenuanti nottate che sino al 2006 i lavoratori immigrati hanno trascorso in fila davanti ai nostri uffici postali; prima, infatti, la procedura di regolarizzazione imponeva l’invio in forma cartacea, tramite posta ordinaria, della documentazione che oggi può viaggiare sul web. Vantaggio non da poco, si dirà, tuttavia la dematerializzazione di un problema – e persino di un dramma personale – non basta a risolverlo. I numeri del click day descrivono una situazione tragica, uno stato di fatto a dir poco allarmante, la cui criticità affiora solo episodicamente. In queste giornate ci si ricorda di un’ingiustizia pressoché insanabile, che emerge non appena si compia lo sforzo di combatterla: una fatica abbastanza frustrante.

300 mila domande in 4 ore, le prime 100 mila in un minuto. E le “quote” erano solo 52.080
Sono circa 300 mila le domande arrivate al Viminale entro mezzogiorno del 31 gennaio per il primo click day, riservato a 52.080 lavoratori provenienti da Paesi che hanno sottoscritto con l’Italia accordi di cooperazione. Nei primi secondi, dopo il via libera delle 8, sono state ricevute oltre 100 mila domande. La velocità si rivelerà fondamentale, perché le graduatorie seguiranno l’ordine cronologico di ricezione delle richieste, e vista la sproporzione tra “quote” disponibili ed istanze inoltrate, potrà essere regolarizzato soltanto un lavoratore su sei.
Il 2 e 3 febbraio la stessa situazione si è riproposta per le rimanenti “quote” – circa 46 mila – riservate a colf e badanti provenienti da nazioni che non hanno sottoscritto accordi di cooperazione con il nostro Paese (30 mila), e infine alla conversione di permessi provvisori per studio e lavoro stagionale.  

L’invio delle domande on-line si rivela una forma di discriminazione
La nota dolente di questo meccanismo di regolarizzazione non consiste soltanto nella casualità del metodo di selezione delle domande, fondato sul mero criterio cronologico, ma soprattutto nella sperequazione che importa a danno di coloro che non sanno o non possono usufruire della necessaria strumentazione informatica. Non a caso nella gara di velocità hanno trionfato coloro che si sono potuti avvalere dell’aiuto dei propri datori di lavoro – peraltro spesso organizzati in patronati e associazioni – o che si sono rivolti ad appositi consulenti. Per tutti gli altri la minima incertezza nel riempire i complicati moduli on-line, un’interruzione nella connessione alla rete, o più spesso le difficoltà nel collegarsi al portale del Ministero a causa dell’inevitabile sovraffollamento, comporteranno l’impossibilità di continuare a lavorare nel nostro Paese, oppure il mancato ricongiungimento con un proprio familiare, o ancora, forse più spesso, il prolungamento di un periodo di vita incerta e clandestina.

Criticità di fondo delle nostre politiche sull’immigrazione
Si potrà anche eccepire che in definitiva, essendo limitata la capacità dell’Italia di ricevere lavoratoti extracomunitari – in particolar modo in questo periodo, a causa della crisi economica – una severa selezione si rivela tanto dolorosa quanto necessaria. Ma quest’argomento non basta a giustificare i vizi di fondo della nostra politica sull’immigrazione: in primo luogo in Italia un Decreto flussi si faceva attendere dal 2007, con l’inevitabile boom di immigrati in attesa di regolarizzazione; inoltre la decisione di non individuare criteri di selezione dei lavoratori da regolarizzare, rimettendo la scelta alla casualità del sistema informatico, è apparsa a molti soluzione improvvida, giudicata tra l’altro una forma di abdicazione della politica dal suo ruolo, foriera d’inevitabili conseguenze negative, in termini di ingiustizia e di accrescimento delle disuguaglianze, all’interno di una categoria sociale, quella degli immigrati, già vessata da avversità intrinseche alla propria condizione giuridica.

“Flussi” invertiti: la regolarizzazione di lavoratori già clandestinamente presenti in Italia
In quest’ottica si disvela per di più un’ipocrisia latente, che si cela già nel nome attribuito al provvedimento di pianificazione delle regolarizzazioni. L’espressione “Decreto flussi” rinvia infatti all’idea di una moltitudine di extracomunitari in movimento, che come la corrente di un fiume che si getti in mare, verrebbero accolti nel nostro Paese dopo aver ottenuto, a distanza, un contratto di lavoro in territorio italiano. Ben più statica si rivela la realtà dei fatti: il Decreto flussi, come tutti sanno, non fa che regolarizzare la situazione lavorativa di immigrati clandestini già presenti e impiegati in Italia.
Ma ciò non basta. Le peripezie che attendono quanti riceveranno l’OK sull’istanza inviata al Ministero dell’Interno finiranno, quasi beffardamente, per capovolgere il significato dell’espressione “Decreto flussi”. In realtà il primo “moto” prodotto dal Decreto procederà proprio dal nostro Paese in direzione delle nazioni extracomunitarie. I lavoratori ammessi alla procedura di regolarizzazione saranno infatti costretti ad uscire dall’Italia, con un nulla osta, per recarsi nel proprio Paese d’origine; laggiù dovranno ottenere dalle nostre autorità diplomatiche un visto d’ingresso per motivi di lavoro, col quale potranno finalmente rientrare in Italia, onde beneficiare del provvedimento di regolarizzazione; e tutto ciò, naturalmente, a patto che le autorità preposte chiudano un occhio al momento del rilascio del primo nulla osta, necessario all’immigrato per tornare nella propria nazione: in quel momento, infatti, egli dovrà in qualche modo autodenunciarsi come clandestino, e rischierebbe, a rigore, di essere definitivamente segnalato ed espulso.
In definitiva, in virtù del Decreto flussi di quest’anno i più fortunati – uno su sei, è bene ricordarlo, senza conteggiare coloro che non sono riusciti affatto ad inoltrare l’istanza – potranno tra qualche mese imbarcarsi in un’odissea dall’esito incerto, che li condurrà al riconoscimento giuridico di uno stato di fatto che spesso si protrae da anni, tra incertezze, diritti negati e inevitabili sopraffazioni.

Ritardi nelle procedure: ancora in corso le regolarizzazioni del Decreto flussi 2007
Tutto ciò mentre risultano ancora in corso i rilasci di buona parte dei nulla osta richiesti nel 2007, e mentre le prefetture stesse lamentano la difficoltà di evadere il carico di domande relative al Decreto flussi di quattro anni fa.  
La materia dell’immigrazione, nella sua globalità, richiede un organico intervento di riforma. La normativa attualmente vigente non è apprezzata né dai datori di lavoro né dai lavoratori immigrati nel nostro Paese. L’incapacità di gestire la complessità e le dimensioni numeriche del problema alimenta sacche di clandestinità e di emarginazione, all’interno delle quali non solo si moltiplicano le spinte criminogene, ma vengono spesso calpestai i più elementari diritti della persona.     


                                                                                                    Marco Giorgetti