"C'è la bellezza e ci sono gli umiliati.
Qualunque difficoltà presenti l'impresa, non vorrei mai essere infedele né ai secondi né alla prima" A.C.

lunedì 19 dicembre 2011

Il paradosso del diritto naturale. La legittima difesa

Risposta al problem solving del Seminario DISF Working Group del 5 Novembre 2011, per ulteriori considerazioni e approfondimenti sul tema, http://www.disf.org/DWG/111105_ProblemSolved.pdf



La Bioetica, il diritto e la stessa filosofia si rivelano spesso “scienze” impacciate e persino insufficienti nel risolvere coerentemente problemi concreti, pur afferenti al proprio specifico ambito d’indagine. Basti pensare ai problemi di inizio e fine vita, per quanto riguarda la bioetica, oppure, per quanto concerne i problemi giuridici, all’attribuzione di diritti contesi o contendibili, come il riconoscimento delle coppie di fatto omosessuali o l’attribuzione di diritti agli immigrati. Anche l’economia non sfugge a criticità difficilmente riducibili attraverso i soli strumenti propri di quella disciplina: la scelta tra un orientamento dirigista o liberista, ad esempio, è questione che pur afferendo all’ambito economico, finisce per provocare dibattiti e inquietudini di diversa natura, che si potrebbero sbrigativamente ricondurre alla sfera politica in senso lato, ma che corrispondono, in ultima analisi, a interrogativi dal contenuto spiccatamente etico. 
La stessa filosofia, in fondo, continua ad essere investita del compito arduo di fornire le ragioni e lo statuto metafisico di un concetto di “natura” – e di natura umana in particolare – in grado di giustificare il fondamento di un’etica, e conseguentemente di un diritto naturale.

Per quanto riguarda in particolare l’ambito giuridico, l’esempio della legittima difesa è utile a mostrare alcune contraddizioni di fondo, che svelano la parziale incomprensione, da parte del legislatore, di alcuni dei principi ispiratori del nostro sistema penale. Si tratta, a noi sembra, di un’incomprensione fondata sul parziale abbandono di valori legati allo statuto precipuo della persona umana, e quindi al diritto naturale. Ci siamo riferiti al caso concreto della riforma della legittima difesa di qualche anno fa: la ripetizione di un comportamento deviante destò un particolare allarme sociale perché fece temere per il bene comune. Bisogna dire, quindi, che il principio generale – che cioè sussista legittima difesa solo in compresenza di entrambi i requisiti, della proporzionalità fra offesa e difesa e della contestualità delle due condotte – sembrò vacillare perché il contrasto tra bene-vita dell’aggressore e bene-vita dell’aggredito, conflitto cui aveva avuto riguardo il primo legislatore nel prevedere questa specifica causa di giustificazione, si era trasformato nel diverso conflitto tra bene-vita dell’aggressore e bene pubblico, generale, leso dallo stesso allarme sociale destato dall’inflazione, ormai non più accettabile nella percezione comune, dei comportamenti devianti. La pericolosità intrinseca alla ripetizione dei comportamenti devianti, tuttavia, pur reclamando a livello di politica criminale una qualche reazione, non giustifica una minor tutela del bene-vita dei consociati, quand’anche si tratti di uno dei famosi “ladri di villa”. Quando il ladro sia disarmato, dunque, o comunque non porti alcun attacco al bene-vita del rapinato, non si potrà mai riconoscere la sussistenza della legittima difesa allorché quest’ultimo attenti alla vita dell’offensore. Si tratta qui di un problema solo apparentemente giuridico, che in realtà fa appello alla coscienza dei consociati, e soprattutto all’identità giuridica che un’intera società ha scelto per sé. La civiltà del diritto reclama un orizzonte di valori condivisi, che tenga sempre la persona al centro della propria attenzione e della propria tutela: una disciplina più elastica della legittima difesa, violando senza dubbio l’interesse a questa protezione rafforzata, tradirebbe il primo dogma della civiltà del diritto, ed entrerebbe quindi in contraddizione con se stessa; e ciò accadrebbe comunque: sia che la società si autorappresenti come fondata sul diritto naturale, sia che da simili questioni “filosofiche” tenti di affrancarsi.
  Marco Giorgetti

venerdì 16 dicembre 2011

Più in alto: elogio sedizioso di una violenza pacifista

L'alpinismo è una forma di manifestazione di una scelta esistenziale. Che si tratti di affermazione o di semplice protesta, direi che dipende dal modo in cui ciascun alpinista interpreta o intende il proprio gesto. Comunque resta fermo il principio: la scalata sottende un orizzonte di valori che vanno ben al di là dell'impresa sportiva. In questo senso l'alpinismo è una forma di espressione culturale, che mette in gioco tutto l'uomo, il suo essere e la sua capacità di produrre significato.
Direi che l'alpinismo è una forma di violenza necessaria, come la guerra, l'amore o la rivoluzione. E anche in montagna, come in amore e in battaglia, per sopravvivere bisogna vincere; oppure perdere con dignità. Perciò credo che il vero obiettivo dell'alpinismo non sia salire, ma concepire progetti realizzabili e al contempo ambiziosi, e poi concretizzarli seguendo le regole etiche della scalata by fair means.
La parabola dell'alpinismo si rivela in questo modo un grande esercizio di dignità, in cui facoltà caratteristiche dell'uomo - quali l'immaginazione, la ragione e la volontà - vengono esercitate per prevalere sulle forze cieche della natura, ma anche sulle insidie della paura e delle subdole inclinazioni suicide, che talvolta si affacciano alla nostra mente.
Per anni mi sono chiesto quale elemento costituisse il più fiero antagonista dello scalatore: la forza di gravità? La paura? Il vuoto o la sua proiezione mentale? Non saprei dirlo con certezza. Tuttavia, procedendo per esclusione, vorrei chiarire che la forza di gravità altro non è che uno dei presupposti necessari dell'alpinismo. C'è lo scacchiere e si gioca a dama, c'è la gravità e allora si può scalare. 
Per quanto riguarda la paura, direi che ogni neofita dell'alpinismo è solo un atleta, finché prova una paura immobilizzante. Io stesso ho scalato per i primi cinque anni in preda al terrore: tornavo in montagna proprio per provare nuovamente quella paura assoluta e tentare di superarla. Sino a questo stadio, la paura è da intendersi come un automatismo fisiologico ineliminabile, e va quindi paragonata al senso di affaticamento fisico che si prova negli sport aerobici. E se non ti alleni, ad esempio nella corsa, è ben vero che eviterai di stancarti, però non riuscirai a vincere, spostandola in avanti, la tua soglia di affaticamento. Discorso identico vale per la paura: arriva prima o poi il giorno in cui corri senza fiatone, e così c'è anche il momento in cui scali senza paura. Chiariamo: "senza paura" non è del tutto corretto; diciamo che si arriva a scalare senza terrore, senza una paura negativa e immobilizzante, ma bisogna ben guardarsi dall'eliminare un sano timore dal proprio bagaglio cognitivo, finché si sta in montagna. "Chi non ha paura muore una volta sola", diceva Paolo Borsellino: ecco, è proprio quella volta lì che l'alpinista desidera rinviare per quanto possibile. 
Insomma, superato il terrore, secondo me si smette di essere uomini comuni che vanno in montagna, e si diventa alpinisti. L'alpinista è quindi uno che dà per scontata la forza di gravità, che ha sconfitto il terrore, che sfrutta a proprio vantaggio un po' di sana paura, e che lotta ogni giorno contro la paura di essere colto dal terrore. La sola paura dell'alpinista, in fondo, è la paura di aver paura. 
Quanto al vuoto e alla sua proiezione mentale, si tratta di dimensioni che l'alpinista trova esaltanti. Prendiamo l'esempio di un passaggio particolarmente esposto lungo un tiro impegnativo: l'esposizione ti incute un timore che cerchi di contenere sia con espedienti psico-fisiologici, sia attuando contromisure di carattere tecnico: controlli la respirazione, ti ripeti che sei in grado di affrontare quel passaggio, e comunque cerchi di piazzare una buona protezione per limitare i danni di un'eventuale caduta. Dopo di che - se non sei più solo un uomo, ma anche un alpinista - sai che dovrai cavalcare l'irrazionale, tuo migliore alleato. E' allora che ti slanci verso il passaggio, in preda ad uno stato di esaltazione multisensoriale difficilissimo da descrivere. Guardi dall'esterno te stesso che scali in balia del vuoto - quasi non fossi tu ad arrampicare - e al contempo domini il tuo corpo, e ogni centimetro di roccia, con sensibilità potenziata e precisione chirurgica: sono i due risvolti, apparentemente incompatibili eppure così coerenti nel loro paradosso, di una sensazione unica e pressoché inspiegabile, che costituisce la felicità e la droga di ogni alpinista. 
Resta il fatto che l'alpinismo non è attività da "uomini qualunque". L'alpinista è sempre anche, e forse soprattutto, un eroe. Il suo eroismo consiste nella capacità di mettere tra parentesi se stesso - la difesa delle proprie certezze e della propria sopravvivenza biologica - pur di stanare i fantasmi che si nascondono nella propria interiorità. L'alpinista invoca, suscita e provoca il mostro che ogni uomo si porta dentro, e subito si getta a strangolarlo a mani nude; il riscatto autentico dell'alpinista consiste in quest'immagine rinnovata di se stesso: uomo autentico che non rinuncia ad ingaggiare contro i propri limiti una lotta leale, corpo a corpo. 
Ma non si concluda, per ciò solo, che lo scalatore sia allora un egotico solipsista; e nemmeno un rozzo, votato all'agire più che al riflettere. Il falso intellettuale, anzi, suole starsene immobile e ben pasciuto con le mani posate in grembo: sovente è persuaso - giacché egli è per lo più relativista - che la ritenuta indifferenza tra gli opposti gli strizzi l'occhio, assolvendolo dalla sua ignavia. Ma vero filosofo è l'alpinista: a nervi tesi corrode se stesso, certo che la passione che gli arde nel petto lo consumerà, sino a svelargli il reale, proprio al di là di sé; ben oltre quel ingombrante nel quale i vili inciampano e restano imprigionati. Per questo lo scalatore è anche un ottimista: la fiducia nella verità muove guerra ogni giorno al nichilismo che imbriglia gli inetti.
Certo che esiste un uomo buono anche ai piedi delle montagne! Ma se volete propormi un modello di umanità alternativo all'alpinista, per non rischiare portatemi almeno un santo. Un santo, certo, e non un bonaccione: l'umanità si fa attraverso un eroismo che in radice è violento. Si definisce lotta, non a caso, quello sforzo per la conquista della virtù, tipico di chi disdegna l'immobilismo dei benpensanti. Ed è ascetica, cioè rivolta verso l'alto, la lotta dell'umanità; poiché anche l'uomo autentico, come la verità, si trova oltre il Sé, più in alto dei vizi banali dell'Io.                        

giovedì 1 dicembre 2011

Aristotelismo natalizio: quando l’oggetto ideale è un dono materiale


Chi l’ha detto che i regali non sono una cosa seria? Quando lo slancio di un dono si appiattiva sul dovere formalistico di “non presentarsi a mani vuote”, mio nonno dismetteva gote rosse, commozione permanente e il pudore col quale parlava, sempre a mezza bocca, di regali fatti e ricevuti. Cambiava persino la parola, riferendosi allora all’obbligo sociale di trovare “un presente”; mica un regalo.
Quando invece si trattava di un vero dono, tramava per settimane col fare misterioso di chi stesse preparando un attentato. Lo sforzo per assecondare il convincimento del nonno di non essere nemmeno sospettato delle sue macchinazioni, pur non scevro da profili comici, costituiva una fatica drammaturgica estenuante. Per di più, il piano di conquista e consegna di questi regali si preannunciava a volte tanto complesso da suggerirgli di eleggere un complice; si trattava di una designazione ad honorem comunicata in tono grave, e resa ancor meno declinabile dal sottinteso che quella chance di partecipazione ai suoi disegni dovesse costituire quanto meno una lusinga.
Non dimenticherò mai la sensazione di smascheramento, ma al contempo di rassicurante empatia, che provai a vent’anni, quando nonno mi chiese che cosa avessi regalato alla mia ragazza. Certe domande contengono una confessione implicita, e l’imbarazzo che avrei dovuto vincere per rispondere a mio nonno – perdonandolo di aver palesato il sentimentalismo che ci accomuna, e che entrambi ci sforziamo di nascondere con una severità posticcia – mi svelava il senso della parola “virilità”. Replicai in modo evasivo, come si conviene nel dialogo tra coloro che di parole non hanno bisogno: in realtà capii che la amavo solo quando le vidi in dosso quel maglione rosso. Lo avevo cercato per ore, imprecando, in un sabato di dicembre; era naturalmente un pomeriggio di sole, il che aveva contribuito non poco ad acuire la mia stizza. Le persone animate da una passione come la mia, egotica e soverchiante, in fondo non possiedono neppure se stesse: faccio pace con le mie ansie solo quando me ne sto appeso su una sperduta parete rocciosa, magari nei pomeriggi di dicembre in cui la gente suole accalcarsi, senza ragioni, nei centri commerciali delle grandi città. Il mio amore, la mia donna, il tepore del sole invernale sulle mie rocce avevano sempre mosso guerra alle “loro” consuetudini cittadine, ai “loro” doveri sociali, alla “loro” tradizione natalizia: Natale era troppo cibo e qualche regalo; per me la solita dieta, da seguire in quei giorni con maggior fierezza, pareti ghiacciate e la compagnia degli amici di sempre.
Ma lo vidi con chiarezza disarmante, quella sera, che lo schema della mie certezze, rassicurante e banale come lo shopping natalizio, s’era infranto sulla trama, fitta, di quel maglione rosso. L’aveva strappato all’anonimato di una boutique sovraffollata – e di certo pure all’irrefrenabile istinto rapace indotto nelle donne dall’atmosfera del Natale – lo sguardo fiero di lei, felice d’essere avvolta e in qualche modo posseduta dal “nostro” maglione, che io stesso non avevo mai, prima di quell’istante, sentito davvero mio.
Eppure ne avevo lette di pagine sul “dono”:  profluvi di elucubrazioni sterili, ad esempio di Jacques Derrida, che ho sempre apprezzato ma mai stimato fino in fondo. Che un regalo crei un “doppio legame” – come lui sostiene – capace di avvincere donante e donatario in una morsa di doveri morali senza sbocco, è valutazione da contabili dei sentimenti, tanto perspicace se accolta nel suo risvolto metaforico quanto arida sul piano analitico e descrittivo. Quale molesto vincolo obbligatorio celerebbero mai gli occhi lucidi di una donna innamorata, destinataria di un regalo? E chi saprebbe valutare il quantum da restituire?..
Semmai, avrei trovato aderenti al mistero di quegli occhi le pagine di Platone, più orientate a spiegare la dinamica del dono attraverso la nozione di gratuità. Ma si tratta anche qui di un ragionamento disincarnato, in ogni caso riduttivo agli occhi di un giovane innamorato. Persino Platone è poca cosa nel giudizio degli amanti: il sigillo dell’amore è quella specie di estremismo egolatrico, refrattario ad ogni concettualizzazione perché incline a blindare il miracolo di cui si è protagonisti con la strenua difesa dell’idea di eccezionalità. E’ un peccato d’ingenuità, tipico degli innamorati, che solo un cinico potrebbe non perdonare. E  che solo chi non ha mai amato non invidia agli amanti.  
Filosofi e poeti non spiegano che qualche riflesso della vita; i giornalisti, poi, non fanno che svilirla. Infischiatevene delle tronfie analisi dei commentatori sul significato anodino del dono natalizio; fatevi beffa, se credete, dei “saggi” inviti alla sobrietà che i giornali ci rivolgono alla vigilia di questo Natale di crisi.
Donate se avete la chance di fare un regalo, e non siete costretti, anche quest’anno, a trovare solo qualche “pensierino”. Io vi invidierei, nonostante provi un certo pudore nel rimpiangere il sentimento che faceva di un noioso dovere l’occasione per un istante di felicità. Ma in verità rimpiango anche la sapienza di mio nonno, capace per abito caratteriale, e senza alcuna vergogna, di spendersi tanto per un regalo: eccesso simbolico, in grado di riassumere in un piccolo gesto le aspirazioni e le cure di una vita intera.
Anche il più incurabile solipsismo è blandito dalla banale materialità di un dono; custodisco con cura feticista la piccozza che nonno mi regalò quando avevo 14 anni, la gigantografia del Monte Bianco che mi consegnò lei, quella sera, sorridendo dal suo maglione rosso, e pure i vecchi moschettoni che mi regalò il mio compagno di cordata, dono che non feci mai in tempo a ricambiare.

giovedì 20 ottobre 2011

Mu'ammar Sarkozy

Questa volta Sarkozy stava per fare una tripletta: in soli due giorni una figlia, una vittoria in guerra e un Governatore della Banca d'Italia. Ma qualcosa è andato storto.
Augurando all'inquilino dell'Eliseo che il vincolo biologico che lo lega alla figlia - Dalia o Julia che sia - risulti più intenso del nesso politico che (non) lo avvince al Governatore designato della Banca d'Italia, Ignazio Visco, diciamo che per una volta il nostro Governo, smarcandosi dai 'desiderata' di Sarkò, ha salvato la faccia.
Quanto alla "vittoria" della guerra di Libia, icasticamente rappresentata, per gli amanti del genere 'splatter', dalle immagini del cadavere di Gheddafi, direi due cose soltanto: il linciaggio 'contra jus' del pur sanguinario dittatore, non ferirà il cuore amantissimo e sinistrorso del cantore della 'libertè' Bernard-Henry Levy, tanto più che con questo successo Sarkò rischia di prolungare la sua permanenza all'Eliseo? E poi, per concludere, direi che noi, da bravi italiani, abbiamo adesso l'occasione di farla di nuovo in barba a Nicolas, tessendo col nuovo governo libico rapporti diplomatici ed economici che mettano in risalto la vicinanza geografica e una storia comune - benché tempestosa - e facciano così sbiadire le ragioni, venali, di un leader che ha scelto una guerra di "liberazione" straniera solo perché i sondaggi elettorali 'domestici' lo davano per spacciato.
Tutto ciò, sia ben inteso, col consueto affetto verso i cugini d'oltralpe, e attendendo con ansia di batterli di nuovo ai prossimi Europei.

giovedì 6 ottobre 2011

SE IL PAPA VUOLE LA RIVOLUZIONE


ELOGIO DELL'AZIONE - Non amo i discorsi; specie in questo periodo di stagnazione economica, di paralisi politica e di apatia morale. Apprezzo i fatti e tengo in minimo conto le parole.
In una lettera recentissima, scrivevo ad un amico: “Se saremo costretti alla lotta di tutti contro tutti per la sopravvivenza, per l'assistenza sanitaria e per un minimo di previdenza, allora la nostra sarà la prima generazione del dopo guerra a conoscere una reale involuzione sociale e, direi, etica, spirituale. Occupati a sopravvivere, infatti, perderemmo inevitabilmente di vista il perseguimento di quei valori capaci di rendere una società - e gli uomini che s'impegnano nello sforzo di costruirla - più giusta e più umana. Così perderemmo la chance di divenire, in quest'unica vita che ci è dato di vivere, più giusti e più umani”. Ciò solo per mostrare quanto io tema, attualmente, che la mancanza di un'iniziativa pragmatica possa finire per incidere negativamente sulla nostra sfera morale.

PERFORMATIVI: PAROLE CHE FANNO - Però c'è un dire che promette cambiamenti. Un dire che, scavando, riporta alla luce, genera una “conversione” che è riscoperta dell'identità, e perciò primo passo di un cambiamento.
Mi riferisco ai discorsi tenuti dal Papa nel corso dell'ultimo viaggio in Germania; testi visionari e altissimi che mi hanno tenuto compagnia negli ultimi giorni, sostituendo – senza farla rimpiangere, incredibile a dirsi! – la mia incallita lettura delle opere politiche di Camus.
Sentite qua, dal discorso del 22 settembre al Bundestag: “In gran parte della materia da regolare giuridicamente, quello della maggioranza può essere un criterio sufficiente. Ma è evidente che nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell'uomo e dell'umanità, il principio maggioritario non basta – e già qui sarebbe da cascare dalla sedia, invece tutto tace, durante e dopo il discorso. E allora il Papa prosegue – Nel processo di formazione del diritto, ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del proprio orientamento. Nel terzo secolo, il grande teologo Origene ha giustificato così la resistenza dei cristiani a certi ordinamenti giuridici in vigore: «Se qualcuno si trovasse presso il popolo della Scizia che ha leggi irreligiose e fosse costretto a vivere in mezzo a loro […], questi senz'altro agirebbe in modo molto ragionevole se, in nome della legge della verità che presso il popolo della Scizia è appunto illegalità, insieme con altri che hanno la stessa opinione, formasse associazioni anche contro l'ordinamento in vigore»”. Camus già impallidisce, troppo ripiegato sulla questione esistenziale della soggettività per poter apparire rivoluzionario almeno la metà del Papa.

ILLUMINISMO D'OLTRETEVERE - Mi chiedo che cosa intenda Ratzinger quando legge da Origene la locuzione “legge della verità”. La risposta arriva sì e no un minuto dopo: “Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto; ha rimandato all'armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un'armonia che però presuppone l'essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio”. Ma se la Ragione creatrice di Dio non è palese - tanto che non può essere imposta, a mo' di legge coranica, per ispirare un intero ordinamento – allora va ricercata. E va ricercata con la libertà di spirito di chi sa che troverà, forse, ma senza mai poter essere certo di aver trovato; ché la Verità di Dio, come sovrabbondanza traboccante, non trova albergo nella mente o nel cuore degli uomini. E allora ditemi voi che differenza c'è fra la ricerca di Cartesio o quella di Kant e la ricerca del Papa Ratzinger. Non a caso “storicista” anche lui: sempre in Germania ha fatto riferimento più volte ad una razionalità cristiana, sorta da un milieu culturale complesso, composto da ingredienti giudaici, greci e romani. Chapeau!

AGNOSTICI IN CIELO - Posizioni evidentemente troppo all'avanguardia, per un Papa, quelle del professor Ratzinger. E infatti non sono mancate le rimbeccate infastidite – ne ho letta una, bellissima, di Marcello Veneziani sul Foglio – da parte dei commentatori di area cattolica. E allora il Papa, tanto per non lasciar adito a dubbi, spiega per filo e per segno – nel corso dell'omelia tenuta durante l'ultima messa celebrata in Germania, all'aeroporto turistico di Friburgo - quale sia il riflesso spirituale del suo pensiero giuridico, etico e in genere filosofico: “Agnostici, che a motivo della questione su Dio non trovano pace; persone che soffrono a causa dei nostri peccati e hanno desiderio di un cuore puro: sono più vicini al Regno di Dio di quanto lo siano i fedeli di routine, che nella Chiesa vedono ormai soltanto l’apparato, senza che il loro cuore sia toccato dalla fede”. Trasalisco, anzi, mi commuovo. C'è una carica drammatica in queste parole pronunciate da un Papa... “L'uomo può essere vicino a Dio a prescindere da me, da noi, dalla Chiesa”, io queste espressioni le intendo così, come se un re dicesse che si può essere vassalli anche senza prostrarsi ai suoi piedi: una servitù fatta solo di libertà.
C'è una rivoluzione in nuce, strisciante eppure già esplosa, in tutte le affermazioni del Papa in Germania. E la rivoluzione consiste nella certezza della libertà, nella consapevolezza che l'uomo possa cercare Dio solo con le proprie forze, e che ogni imposizione eteronoma, ogni intervento esterno del “divino” sull'umano, non è che coercizione contraffatta, tentativo di raggiro, coartazione della libertà.

TEMPO DI DARSI DA FARE - Ma veniamo al pragmatismo: in base alle indicazioni del Papa i sedicenti cattolici inerti sono più simili ai pagani degli agnostici impegnati nella ricerca. E allora, cari cattolici, è ora di rialzarsi. Anzi, cari uomini, è ora di ripartire se aspirate a ritornare veri cattolici; perché se ve ne state seduti sulle vostre certezze, sulle rassicurazioni che vi giungono dalla mera appartenenza alla vostra chiesa – che non è la Chiesa di Papa Benedetto – allora siete più distanti da Dio degli illuministi, peccatori, ma angosciati, e perciò “davanti a voi nel Regno dei Cieli”.
Tornare ad essere cattolici, questa volta, non sarà facile. Perché occorrerà pensare, in quanto, come detto, “ ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del proprio orientamento”.
Ciò significa, aspiranti cattolici, che è tempo di tornare alla politica con serietà. Occorre riavvicinarsi alla politica perché l'inerzia determinerebbe il prevalere “delle false leggi del popolo della Scizia”. Ma per portare avanti una politica dei cattolici non basterà affidarsi ai politici “di area cattolica”, semmai non fosse chiaro; perché costoro incarnano l'appiattimento dei credenti routinari, convinti che per appartenere all'“area cattolica” sia sufficiente presentarsi all'Angelus la domenica dopo 'il gran rifiuto' della Sapienza di accogliere il Papa all'università.
E per far politica da cristiani non basta neanche allinearsi alle opinioni tradizionalmente “cattoliche”, perché ogni conservatorismo - finalmente è chiarissimo - è bandito per principio. E allora riflettere, valutare e riconsiderare: rivedere le proprie posizioni sulle coppie di fatto, sul 'fine vita' e sulle tecniche di fecondazione assistita. E poi inventarsi una posizione originale sui temi economici, perché un cristiano potrà pure rifiutarsi di divenire dirigista, ma certe ingiustizie sociali dei giorni nostri - e la prospettiva concreta del loro perpetuarsi – impongono l'invenzione di un nuovo liberismo, di un liberismo più umano. Per la promozione della lotta dell'uomo contro l'uomo sono sufficienti i calvinisti, e speriamo che a breve una sostanziale differenziazione su questo tema segni un netto discrimine tra loro e noi; caso mai – sia detto per inciso - epurando la Chiesa da certe correnti che al protestantesimo sembrano guardare con troppo favore: strizzatina d'occhio che tende all'eresia!
Qui non mi preme proporre ricette, mi basta che sia chiaro che è ora di svegliarsi. Lo dice persino Camus, se il Papa non bastasse.

giovedì 22 settembre 2011

E' TUTTA COLPA MIA


L'eccessiva modestia si rivela spesso la peggior forma di arroganza. Mi perdonerete anche questa volta, se affermo che è tutta colpa mia. Colpa di che cosa? Di tutto. Della crisi economica e della manovra per arginarla; del nostro debito pubblico e dell'impossibilità di appianarlo; del downgrade di Standard&Poor's, della crisi di fiducia dei mercati, del probabile default del sistema-Italia e di tutto il resto. E' colpa mia – e se credete anche vostra, purché scegliate di associarvi alla mia esecrabile immodestia – perché le cause di queste disgrazie erano da anni sotto gli occhi di tutti. Proprio io non ho amici neolaureati, miei coetanei, che abbiano trovato uno straccio di posto di lavoro. Conosco invece qualcuno, un po' più grande di me, che il posto di lavoro l'ha perso, se l'è visto congelato, dimidiato, cassa integrato, sospeso, sostituito o in altro modo calpestato. E poi, mio padre a parte, non vedo un datore di lavoro ormai da anni. Chissà che fine han fatto i vecchi padroni, mai troppo odiati e mai troppo rimpianti... Per di più ho letto, quasi ad aggravare la mia colpa, che le economie asiatiche ci stavano fagocitando, e che quel poco che producevamo era vecchio, inutile o troppo costoso. Eppure confesso che ho continuato a consumare e a “studiare”, ritenendo che un giorno “qualcuno” m'avrebbe assunto. Ho sperato, in definitiva, in qualche fattore esterno capace di garantirmi la sopravvivenza e persino il benessere.
Sbagliavo. Sbagliavo non tanto, e non solo, perché queste speranze si rivelano oggi illusorie, ma soprattutto perché a ben vedere si trattava di auspici informati al più becero egoismo, alla più miope indolenza.
Oggi, accorgendoci che non abbiamo più nessuno con cui prendercela, abbiamo la chance di rifare l'Italia, l'occasione di sentirci all'altezza dei nostri nonni e al di sopra dei nostri padri, spesso “rivoluzionari” a buon mercato. Nella misura in cui riusciremo a ricostruire il Paese, ci riveleremo capaci di risolvere noi stessi: quel groviglio di eroe e bamboccione che ciascuno di noi odia e ama all'eccesso.
Buon lavoro, Ragazzi!

venerdì 2 settembre 2011

FEDE, RAGIONE E SCIENZA: SFIDE "DA UOMINI"


IL CARDINALE RUINI INCONTRA I GIOVANI RICERCATORI DEL D.I.S.F.

Lo scorso 28 maggio il Cardinale Camillo Ruini, Presidente del Comitato per il Progetto Culturale della CEI, ha tenuto presso il Centro Convegni Bonus Pastor di Roma una conferenza pubblica dal titolo "Scienza, ragione e fede: un rapporto sempre in costruzione". La prolusione del Cardinale, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana sino al 2007, ha costituito il momento culminante del quarto workshop annuale del DISF Working Group, un programma di formazione interdisciplinare - coordinato dal Professor Giuseppe Tanzella-Nitti, ordinario di teologia fondamentale - finalizzato ad accrescere la cultura umanistica, filosofica e teologica di giovani laureati che operano nel settore della ricerca scientifica (informazioni al dwg@disf.org). La “due giorni” di quest'anno era dedicata agli "Aspetti filosofici e teologici dell'attività scientifica".
Per descrivere il vincolo che unisce fede e ragione in un unicum inscindibile,  nell'ambito dell'atto umano del credere, Il Cardinal Ruini è ricorso direttamente alle parole di Sant'Agostino: "Nessuno crede qualcosa, se prima non ha pensato che debba essere creduto" (De praedestinatione sanctorum, 25). E ciò vale a fortiori nel campo della religione, poiché la scelta della fede si manifesta come «decisione sul senso ultimo della nostra esistenza, e richiede di esser motivata nel modo più rigoroso possibile, senza sottrarsi alle domande più radicali circa la realtà stessa a cui si crede: in caso contrario - ammonisce il Cardinale - la fede decadrebbe nell'assurdità e nel fanatismo».
Nell'atto di fede, pertanto, la reciproca immanenza del comprendere e del volere - «nel loro vicendevole condizionamento di conoscenza impegnata e di decisione consapevole delle sue motivazioni»  - discende direttamente dai meccanismi euristici e dalle strutture cognitive tipiche della natura umana. In questo senso, e ancor più esplicitamente, il Cardinal Ruini non ha mancato di sottolineare come «in concreto, non crede l'intelletto, né la volontà, ma l'uomo, il soggetto umano nella sua intrinseca unità».
E l'essere umano che crede e spera, destinatario e ricettore del messaggio religioso, è pure il soggetto attivo e il promotore indefesso dello sforzo scientifico, un percorso teoretico che si snoda su un terreno solo parzialmente indipendente da quello tracciato dai contenuti della fede; e ciò, se non altro, in ragione del fatto che l'uomo si avvale, anche nella ricerca scientifica, degli stessi mezzi conoscitivi di cui si serve nell'approcciarsi al mistero di Dio. E' l'essere umano, l'uomo integralmente considerato, dunque, il trait d'union tra fede, ragione e sapere scientifico.
Giovani ricercatori del DISF
Così, ancora nelle parole del Cardinal Ruini, «da una parte va accolta fino in fondo la radicale novità e trascendenza della fede rispetto alla nostra ragione e libertà», ma d'altra parte non si può disconoscere l'esistenza di «una profonda affinità e continuità»  tra le due sfere, «in quanto il soggetto umano, creato a immagine di Dio, è capace della fede in virtù della sua ragione e libertà». Venendo poi alla reciproca interazione tra i due ambiti, e con evidente accenno all'annosa questione dei rapporti tra teologia e scienza, il Cardinale ha fatto riferimento all'insegnamento di Benedetto XVI, affermando che  «la ragione non si risana senza la fede, ma la fede senza la ragione non diventa umana».
Per quanto concerne in particolare la nozione di Dio, cui l'uomo può aver accesso attraverso la filosofia, ma anche mediante gli studi teologici condotti con la luce della fede, Ruini, proseguendo nel suo ragionamento, ha manifestato un'interessante apertura all'idea che «sebbene la fede e la conoscenza razionale di Dio rimangano nettamente e strutturalmente distinte,  bisogna dunque riconoscere che esiste tra loro una profonda e non casuale analogia».
Il Rev. Prof. Giuseppe Tanzella-Nitti, animatore del DISF
Ma la prolusione del Cardinale non è stata informata, di certo, alla semplificazione accomodante o al camuffamento delle criticità e delle contrapposizioni: analogie e convergenze tra fede, scienza e ragione non devono trarre in inganno, magari «suggerendo un circolo vizioso che volesse dimostrare la ragione con la fede e la fede con la ragione. Si tratta piuttosto - avverte conclusivamente Ruini - di tenere presente l'unità del soggetto umano: razionale, libero e credente».

Al termine della conferenza, il relatore si è intrattenuto con i convenuti, rispondendo alle domande del pubblico, costituito in buona parte da giovani ricercatori, alcuni dei quali collegati via Skype da università d'oltreoceano. Il Cardinale ha così incoraggiato ad impiegare con intelligenza i media e i nuovi social networks, veicolo attraverso il quale, al giorno d’oggi, le idee si diffondono e generano dibattito. Non v'è dubbio che il confronto su  un tema classico, e tuttavia sempre attuale, come il rapporto fra fede e ragione, possa giovarsi anche di un uso sapiente delle nuove tecnologie.

Marco Giorgetti