"C'è la bellezza e ci sono gli umiliati.
Qualunque difficoltà presenti l'impresa, non vorrei mai essere infedele né ai secondi né alla prima" A.C.

sabato 20 novembre 2010

Appunti per un umanesimo giuridico


Per analizzare la questione del possibile assoggettamento della Scienza del Diritto ad una nuova logica efficientista ed utilitarista – che abbia così il suo fulcro  nel dato economico o nel ritrovato tecnologico, i quali perverrebbero in tal modo per via traversa a costituire il vero elemento normativo del diritto – che soppianti in definitiva gli schemi del positivismo giuridico disciplinati dalle regole dell’ermeneutica, è possibile in astratto percorrere due strade alternative: l’una non potrà che essere fondata sul dato d’esperienza, il quale pare in effetti suggerire una sostanziale divaricazione del corso del cosiddetto “diritto vivente” rispetto all’alveo segnato dalle disposizioni formali, quasi che la vita del diritto si ribellasse alle pastoie che il  formalismo giuridico, e la Costituzione rigida in primis, vorrebbero imporle (via storico-giuridica); l’altra strada consisterà invece nell’indagare – ed è questo l’aspetto che a me interessa, essendo il primo senz’altro riservato all’analisi dei giuristi  per così dire “puri” – gli sviluppi della filosofia moderna e contemporanea, onde sondarne le linee guida, per sincerarsi che non accada anche in questo settore, come invece a me sembra, che la normatività precedentemente indiscussa di certi concetti-chiave finisca ai giorni nostri per perdere d’intensità, in conseguenza dell’impoverimento – prima metafisico e poi inevitabilmente pure deontico – del valore attribuito da alcuni fondamentali filosofi del nostro tempo alla stessa idea madre della filosofia, e cioè al concetto di “essere” (via filosofica).    
    Per quanto concerne la seconda delle ricerche appena delineate – e proprio nell’ottica del ribaltamento e dell’impoverimento cui si è fatto riferimento – è impossibile non soffermarsi sul pensiero di Martin Heidegger. Sarà il caso di approfondire il tema delle ricadute nel campo del diritto della nuova ontologia fondata proprio, e non a caso, da colui che è considerato al contempo l’ultimo dei fenomenologi e il primo degli esistenzialisti; tuttavia in questa sede mi preme soltanto rilevare come non possa non produrre conseguenze anche giuridiche l’approccio heideggeriano al problema dell’Essere: egli infatti – eludendo apparentemente il problema dell’Essere inerente agli enti, intesi per lo più come oggetti, e quindi innanzitutto come oggetti d’osservazione – appunta il proprio sguardo in via preliminare sul soggetto conoscente, cioè sull’osservatore (l’uomo o Da-sein, Esser-ci, nel lessico heideggeriano), notando in primo luogo che l’uomo si caratterizza per la propria riluttanza a lasciarsi ridurre alla nozione di Essere comunemente accettata dalla filosofia occidentale, da Platone in avanti.
    L’Essere proprio dell’uomo non è in effetti riducibile agli schemi della mera presenza – operazione invece tutto sommato lecita nello studio degli altri enti – essendo il proprium della natura umana rappresentabile non tanto secondo gli schemi abituali del mero essere (o essere presente) che pare contrassegnare tutti gli altri enti, ma piuttosto secondo il dinamismo di un progettare incontenibile, che costituisce non a caso la peculiare lente d’osservazione dell’Esistenzialismo.
    In riferimento a quel che a noi interessa, è necessario osservare come il nuovo schema esistenzialista produca in fondo un ribaltamento dei poli normativi, sia in prospettiva etica, sia, inevitabilmente, in prospettiva giuridica: non saranno più infatti gli enti, gli oggetti del mondo, ad imporre la propria intrinseca assiologia, e quindi la propria carica deontica, alla coscienza umana: se infatti il mero “esser presenti” degli oggetti non è più riconosciuto quale unica e suprema manifestazione dell’esistere (dell’”atto di essere” avrebbe detto San Tommaso), se dunque la scienza degli enti nel proprio manifestarsi non è più ontologia ma soltanto ontica (giacché di loro si sa solo che si manifestano, e anzi che vengono percepiti, ma s’ignora che cosa essi siano in sé, e soprattutto che cosa sia quell’Essere del quale essi paiono in qualche modo partecipi), allora inesorabilmente si scioglie anche quello “schematismo trascendentale”, con parole kantiane, che nella storia della filosofia ha sempre reso possibile l’affermazione di valori morali, giuridici e in genere deontologici sulla base di un’indiscussa fiducia nel senso dell’Essere manifestato dalla realtà nel suo semplice apparire. In un certo modo siamo qui ancora di fronte alla famosa “ought-being question”, solo che con Heidegger il problema del ponte tra essere e dover essere è posto in secondo piano in un baleno, poiché perderà subito interesse: se la scienza degli enti è solo ontica e non più autentica ontologia, a chi interesserà analizzare in qual modo gli oggetti d’osservazione impartiscano all’osservatore delle direttive etiche in grado di fondare una morale o una Scienza del Diritto? Sarà piuttosto l’osservatore stesso, e cioè l’uomo, a dover ricalibrare in base al valore attribuibile soltanto alla propria esistenza una nuova significatività da conferire a tutto il resto del reale. E in questo è impossibile non ravvisare l’eco di certe grida nietzscheane e il presagio, o forse l’ispirazione, di simillimi assunti sartreiani.
    Sarà pur vero che da Heidegger in avanti la realtà assumerà, sotto lo sguardo dell’uomo, i connotati familiari di un vero e proprio mondo (Welt), cioè di uno spazio aperto a tutte le possibili proiezioni umane: interpretazioni, aspirazioni, istanze morali, slanci estetici e quant’altro, tuttavia a me pare che un ecosistema metafisico destituito della propria dignità ontologica – cioè una realtà del cui fondamento si possa e si debba in definitiva dubitare – non possa mai rappresentare null’altro, per l’umanità, che un orizzonte gnoseologico e morale muto ed estraniante.
    Infatti Heidegger, partendo dalla sua critica all’ontologia classica, passa subito ad analizzare – e qui con piglio smaccatamente fenomenologico – i diversi ambiti in cui la progettualità umana – ingenuamente imbellettata, col suo corredo di libertà “nuove” e apparentemente riconquistate – si esplica nei diversi ambiti dell’esistenza: ed è qui che tutti i nodi vengono al pettine. Sia che si tratti infatti del rapporto strumentale che l’uomo intrattiene con gli oggetti del reale (in der Welt sein), sia che si analizzino invece le relazioni tra esseri umani (mit sein), proprio la progettualità dell’esistenza – cioè l’eigen dell’essere umano, che costituiva la ragione e il fondamento della rivoluzione ontologica heideggeriana – si vede di continuo frustrata, ridotta e in sé tradita dalle contingenze che la realtà le contrappone di continuo. E’ proprio come se il mantice in espansione del progettare umano, simbolo e cifra di ogni trascendenza, si riscoprisse sempre, a confronto con la limitatezza che la realtà gli impone, null’altro che polmone asmatico.
    In relazione a questo limite intrinseco al sistema di Heidegger (il famoso tema della “deiezione”), infatti, si suole parlare di “nichilismo heideggeriano”, proprio a sottolineare che l’ultimo degli “Esistenziali”, l’”Essere – per – la – morte” (zum Tode sein), non è tanto l’unico atteggiamento decoroso dinanzi all’ineluttabilità della morte, ma piuttosto la sola disposizione morale accettabile di fronte ad un evento che renderà retrospettivamente inconsistenti, e perciò impossibili, tutti i precedenti slanci progettuali.
    Questo breve excursus critico sul pensiero heideggeriano può giovare ai nostri fini nella misura in cui ci suggerisce che il pensiero del filosofo esistenzialista è tanto acuto e stimolante nella sua parte analitica – nella quale in fondo ci mostra come i concetti classici di Essere ed Ente si siano corrosi nel corso della storia del pensiero, e necessitino quindi di una rifondazione, se non addirittura di un capovolgimento di prospettiva – quanto insufficiente nel momento parenetico, in cui in definitiva il soggetto non può far altro che prendere atto della strutturale impossibilità, da parte della libertà umana, di darsi compimento a prescindere da una corrispondente significatività ontologica riconosciuta agli enti inanimati e alla natura in genere.
    Un filosofo classico direbbe che, allorché non si riconosca tanto agli enti quanto all’uomo una comune partecipazione al medesimo principio ontologico – l’Essere appunto – si finirà inevitabilmente per lasciare l’umanità in balia di un mondo incomprensibile e incomunicabile. Non ci sarà più spazio né per una gnoseologia, né tanto meno per un’etica, che rendano ragione dell’istintiva libertà che l’uomo in sé percepisce come anelito e come compito aperto, la quale in tutti i suoi slanci pare sempre rinviare ad un mondo esterno che sia al contempo sorgente e deposito di inesauribile significatività. Con altre parole si potrebbe affermare che non appena si dubiti della consistenza metafisica dell’intera realtà, si finirà per dubitare anche di se stessi.
    La natura, nel suo divenire, reclama una forma di osservanza non dissimile da quella che solitamente si reputa degna della più sacra delle leggi (observare infatti è verbo riferibile tanto ad una disposizione dell’animo verso qualsiasi forma di normatività, quanto ad un’attitudine dello sguardo nei confronti del proprio oggetto): il dinamismo naturale esprime un finalismo – rilevante tanto sul piano epistemologico quanto su quello deontologico – il quale non può essere sminuito se non si vuol correre il rischio, poi, di non saper più rendere ragione neanche della tendenza umana alla giustizia, alla bellezza, alla verità e a tutte le virtù, etiche e dianoetiche, che costituiscono alla fin fine il compimento e la giustificazione del conato irriducibile che definiamo libertà.
    Non si comprende, ad esempio, la regola di diritto naturale che prescrive di non uccidere se non in virtù di uno sguardo partecipe e consenziente nei confronti dello sforzo che tutta la natura pare profondere verso il fine della conservazione della vita: così è la vita stessa che manifestamente prescrive di non uccidere. Nel momento in cui si sottrae significatività, e quindi valore, agli andamenti naturali e allo statuto ontologico degli enti, si rischia di non aver poi più nulla da dire in sede scientifica, estetica, etica, giuridica e deontologica in genere. La potestà normativa che si riconosce al reale è direttamente proporzionale al peso metafisico che nella realtà stessa si è disposti a rinvenire.
    Trovo tuttavia che l’analisi heideggeriana sia senz’altro lucida e stimolante fin quando si limita a rappresentare il valore attualmente assunto dalla tecnica nel mondo occidentale, nella misura in cui il filosofo denuncia l’”oblio dell’Essere” in favore di un attivismo efficientista che ha in realtà già sofisticato lo spirito autentico dell’esistenzialismo, avendo privato l’uomo delle domande umane, e avendogli fornito in cambio la chimera di una pienezza immanente in verità mai attingibile. Non per nulla lo stesso Heidegger giungerà ad ammettere che “solo un Dio può salvarci”, proprio perché lo scollamento prodotto dalle sue stesse intuizioni tra momento ontologico e momento etico reclamerà per il futuro un intervento salvifico dall’alto, giacché l’uomo si è scoperto ormai incapace di sondare il senso dell’essere e di attingerne in definitiva gli strumenti per la soddisfazione del proprio impulso alla libertà.
    Il fare tecnico – l’agire strumentale – non potrà mai sostituirsi alla retta ragione della prassi morale, poiché il risultato dell’agire umano non è mai esclusivamente transitivo: i suoi effetti, cioè, non intervengono solo a modificare l’oggetto dell’azione – l’ente materiale e apparentemente solo passivo – ma si ripercuotono sempre sul soggetto stesso, decretandone la rettitudine o la disonestà, la giustizia o l’iniquità. Per questo in Heidegger la sensazione suscitata dell’eventualità della perdizione – cioè l’emozione prodotta dalla responsabilità umana di potersi realizzare o smarrire in ciascuna delle proprie azioni – sarà costituita dall’angoscia (Angst), definita proprio “sentimento del nulla possibile”.
    Le riflessioni heideggeriane suggeriscono in ultima analisi che il potere della tecnica – e quindi delle nuove tecnologie e dei grandi meccanismi di programmazione economica su larga scala, tipici del nostro tempo – è tale da indurre l’umanità a dubitare della significatività del mondo, fino ad indurla a spostare l’asse della ricerca filosofica dal problema dell’ente alla superfetazione esistenzialista. Non mi pare infatti che il concetto stesso di esistenza aggiunga alcunché alla comprensione della libertà umana; mi sembra piuttosto che sottragga al fenomeno spirituale della libertà il fondamento ultimo costituito dall’idea di vita in senso biologico; quest’idea smarrisce infatti a mio giudizio gran parte del suo contenuto se dissociata dalla condivisione dinamica, assieme a tutti gli altri enti, di un comune fondamento metafisico, difficilmente rinvenibile al di là dei confini classici della nozione di Essere.
    Nella nostra prospettiva quindi, tanto sarà utile tener presenti le indicazioni heideggeriane intorno allo smarrimento dell’Essere causato dalla dispersione dell’umanità nel vacuo agire tecnico, quanto dannoso potrebbe essere il cedimento alla tentazione di prestare il nostro assenso alla critica di Heidegger al concetto classico di Essere: al di fuori dell’Essere manifestato dagli enti c’è solo il nulla.
    Sul piano della Scienza del Diritto, pertanto, se è indispensabile accogliere le spie heideggeriane circa la nuova normatività dei risultati tecnici e delle innovazioni tecnologiche – normatività probabilmente superiore all’effettività ipotetica delle norme giuridiche – è al contempo necessario ribellarsi alla tentazione di abdicare al compito, proprio del giurista, di inquadrare il novum in un sistema coerente di regole, in senso classico, giuste; un simile sistema dovrà essere sempre un organismo in grado di conciliare le istanze pratiche del divenire tecnico e dell’innovazione del diritto vivente con la razionalità intrinseca alla deontologia umana, l’unica degna di una scienza.
    Il dominio del casualismo seriale proprio dell’avanzamento tecnologico e delle economie moderne fornirebbe certamente una non comune capacità predittiva sul corso futuro degli eventi, e persino un notevole dominio su di essi, tuttavia non garantirebbe in alcun modo la costruzione di un sistema teoretico all’altezza delle qualità richieste ad un ordinamento moderno. Un dominio male interpretato da parte del legislatore sui meccanismi tecnici della modernità, allorché fosse trasfuso negli articoli della legge, rischierebbe di non produrre altro che la fondazione di un’anacronistica forma di oligarchia. In questo senso è a mio avviso legittimo sostenere che persino un ipotetico dominio assoluto sulla tecnica, e anche sulla tecnica giuridica, non garantirebbe comunque in alcun modo la creazione di un ordinamento giusto.
    Se si riconosce pertanto che i fatti tecnici – dagli ultimi ritrovati tecnologici sino agli strumenti sinora ignoti dell’economia – possiedono al giorno d’oggi una capacità normativa superiore a quella espressa dal diritto, perché in concreto maggiormente effettiva, il problema del giurista non potrà mai essere quello d’impadronirsi della logica di governo propria della nuova tecnocrazia, ma piuttosto quello di rifondare un più ampio e razionale governo della Legge, in grado di dominare pure il profluvio pervasivo e a volte cieco dei mezzi tecnici più attuali.
    Con questo non si vuole affermare l’inutilità della conoscenza, da parte del giurista, dei meccanismi più intimi delle diverse branche della tecnica oggigiorno dominanti, s’intende però ribadire – aspetto che già gli esiti della filosofia heideggeriana hanno manifestato a sufficienza – che altro è la razionalità strumentale ed utilitaristica propria della tecnica, altro, e ben diverso, la logica egualitaria e strettamente raziocinante del fare giuridico: quest’ultimo non può mancare, talvolta, di reclinare il volto fiero della ragione e della certezza sulla necessità episodica del singolo, in se stessa per certi versi schizofrenica e irrazionale; se la ragione onnicomprensiva del diritto non cade nell’errore di dimenticare il fondamento umano della propria effettività, essa non potrà di conseguenza trascurare nemmeno il proprio dovere di rivolgersi all’umanità stessa in tutta la sua complessità, incluse persino le sue contraddizioni: così accade a volte che lo sguardo neutrale della giustizia ceda al fascino in qualche modo sentimentale dell’equità, e ciò sempre con preziosissimo rafforzamento dell’effettività dell’ordinamento.
    Quando il diritto rivendica la propria differenza rispetto a tutti gli altri saperi scientifici, il suo potere ne esce costantemente rinvigorito. E se c’è una differenza che deve sempre contraddistinguere la Scienza del Diritto rispetto alle diverse tecniche di dominio della natura e della società, questa non può che essere, a mio modo di vedere, la sua maggiore umanità.
    E’ questo l’insegnamento fondamentale che ci giunge, sia in positivo che in negativo, dalla lezione heideggeriana: l’umanità è la sola garante della propria libertà, e quindi anche l’unica custode di ogni giustizia.

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