"C'è la bellezza e ci sono gli umiliati.
Qualunque difficoltà presenti l'impresa, non vorrei mai essere infedele né ai secondi né alla prima" A.C.

mercoledì 26 gennaio 2011

Il federalismo che verrà

Pubblicato su "Il Consulente Re" on-line di Dicembre 2010



Il federalismo fiscale non è più una bandiera di propaganda politica, sventolata da una fazione ed osteggiata dall’altra; quasi tutti i partiti si mostrano favorevoli alla ratio che ispira questa riforma “in progress”, secondo la quale, in soldoni, sarebbe auspicabile responsabilizzare gli enti territoriali subordinati allo Stato centrale, e ciò in ossequio ad un previo assunto generalmente condiviso: che soluzioni politiche efficienti possano essere reperite soltanto dagli organismi territoriali prossimi al corpo sociale presso il quale andranno applicate. 
Federalismo fiscale e principio di sussidiarietà
L’idea, insomma, è che l’orecchio della politica si debba avvicinare alla voce di chi la interroga, che le sue parole debbano smettere di echeggiare – spesso incomprensibili – per i palazzi del governo centrale, e debbano farsi carico di suonare amiche all’orecchio del singolo cittadino, là dove egli vive e lavora, possibilmente per risolvergli qualche problema.
Bisogna anche sottolineare che la logica del decentramento degli approvvigionamenti tributari, unitamente alla decentralizzazione delle competenze decisionali inerenti materie tradizionalmente riservate alla potestà normativa dello Stato, cooperano alla creazione di un modello solo fiscalmente federale, in realtà più che mai rispondente alle sollecitazioni suggerite dalla più genuina interpretazione del principio di sussidiarietà. Non a caso questa riforma trova ampio consenso tra le file del mondo cattolico, sempre attento alla difesa e alla riaffermazione del principio di sussidiarietà, la cui formulazione classica, contenuta nell’Enciclica Quadragesimo anno di Pio XI, suona significativamente così: “È vero certamente che [...] molte cose non si possono più compiere se non da grandi associazioni, laddove prima si eseguivano anche dalle piccole. Ma deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofia sociale: che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle”. In sostanza, sia che si tratti di attività riservate al singolo individuo, sia che si abbia riguardo a mansioni assegnate ad organismi sociali, il principio di sussidiarietà tende a preservare la centralità della persona, che non cessa, nell’ambito della comunità, di essere il fine di ogni agire umano, tanto individuale quanto aggregato.  

Devoluzione e federalismo fiscale: un problema di giustizia distributiva   
La tendenza al decentramento si è affermata già a partire dalla riforma costituzionale del  2001, la famosa devolution, con la quale si è capovolto il criterio di riparto delle competenze legislative fra Stato e Regioni: l'articolo 117 della Costituzione prevede ora una lista tassativa di materie soggette alla potestà legislativa statale, affiancata da un elenco, altrettanto cogente, di materie sottoposte alla cosiddetta legislazione concorrente, per le quali cioè la potestà legislativa spetta sempre alle regioni, ma nel quadro di princìpi fondamentali posti dalla legge statale. Il quarto comma dello stesso art. 117, inoltre, prevede che sulle materie di non esclusiva competenza statale o non sottoposte a legislazione concorrente, possano legiferare soltanto le regioni.
A questo punto, se un’entità politica deve assolvere a compiti sempre più vasti, divenire alleata dei cittadini e capace di operare direttamente allo stesso livello territoriale presso il quale essi stessi si trovano, sarà anche necessario dotarla delle risorse economiche e finanziarie indispensabili non solo per prendere delle decisioni, ma pure per renderle effettive all’interno dell’universo socio-economico che le sarà affidato. In Italia l’approvvigionamento di risorse destinate agli enti territoriali subordinati allo Stato, quali le regioni, le province o i comuni, si è sempre realizzato mediante il sistema dei trasferimenti: il gettito fiscale, in sostanza, era indirizzato allo stato centrale, il quale provvedeva poi a far giungere agli organismi territoriali inferiori i mezzi ritenuti necessari allo svolgimento delle funzioni loro attribuite. Epperò il criterio di determinazione delle risorse gestite dagli organismi politici decentrati consisteva nel riconoscere loro fondi sufficienti a coprire le spese che essi stessi dichiaravano: è questo il cosiddetto criterio della spesa storica, meccanismo che di certo non incentiva all’efficienza – giacché più un amministratore spende, più riceverà ­– e soprattutto genera un’ingiustizia redistributiva difficilmente giustificabile, poiché per questa via le regioni più produttive, che contribuiscono maggiormente alle entrate fiscali, finiscono per partecipare proporzionalmente meno ai benefici da esse derivanti in termini di spesa pubblica.
Al contrario di quel che la stampa sovente suggerisce, questi temi non riguardano opinioni di natura politica: sin qui si tratta semplicemente di prendere coscienza di un problema, perché difficilmente si potrebbe definire giusto uno Stato che riconosca meno a chi contribuisce di più.
Dalla “spesa storica” ai “costi standard”: il cuore della riforma
Sotto l’impulso di una simile richiesta di giustizia ­– del tipo che Aristotele avrebbe definito “giustizia distributiva” ­– e ancora assecondando quella filosofia politica che auspica una maggiore autonomia degli enti territoriali subordinati allo Stato, il Parlamento ha delegato al Governo i poteri per attuare un federalismo fiscale che ruoterà su un nuovo meccanismo di attribuzione delle risorse finanziarie agli enti locali.
In base al primo blocco di decreti approvato dall’Esecutivo, infatti, a partire dal 2012 si provvederà a riporre in soffitta il vizioso criterio della spesa storica, per approdare, già nel 2017, alla definitiva affermazione del criterio dei “fabbisogni standard”. Questo canone muove in sostanza dall’assunto che le risorse da destinare agli enti territoriali non vadano parametrati sulle loro spese, ma sul costo oggettivo dei servizi resi al cittadino; così, per parlare della sanità ­– una delle fondamentali voci di uscita del bilancio pubblico, finanziata attraverso l’IVA­ – si giudica inammissibile che per un’identica prestazione, consistente ad esempio in un’analisi del sangue, si riconosca una certa somma alla Lombardia, e magari il doppio alla Campania. Un apposito decreto attuativo, pertanto, affida ad una società di studi di settore il compito di determinare la spesa efficiente ­– valida sull’intero territorio nazionale, e per questo definita “standard” ­– per ogni funzione fondamentale di comuni e province.
Per un federalismo efficiente: meccanismi premiali e sanzioni
Il lettore interessato all’argomento reperirà facilmente, sulla stampa specialistica, informazioni dettagliate circa gli strumenti tributari ­– si tratta per lo più di addizionali e quote di compartecipazione regionale su imposte già esistenti ­– attraverso i quali gli enti locali potranno direttamente trattenere aliquote del gettito proveniente dal loro territorio. Qui preme solo mostrare come la logica complessiva dei decreti attuativi del federalismo fiscale tenda a delineare un sistema di ripartizione delle risorse pubbliche in grado di stimolare la competizione tra enti territoriali omologhi ­– e quindi una corsa all’impiego virtuoso ed efficiente dei mezzi disponibili – attraverso meccanismi di controllo sull’esercizio delle nuove autonomie. Si pensi al caso dell'IRPEF, la cui percentuale manovrabile da parte dei presidenti delle regioni, oltre ad essere sottoposta a specifici “tetti”, vivrà in rapporto di costante simbiosi con l’IRAP: dal 2014 potranno infatti ridurre e azzerare quest’ultima imposta solo le regioni che non avranno ecceduto con gli aumenti dell’IRPEF. L’autonomia, pertanto, in qualche modo si autoalimenta: ne conserverà e ne otterrà di più chi la saprà gestire meglio.
Lo stesso decreto presenta anche numerosi meccanismi premiali: il primo e più macroscopico  prevede che l’ente che riesca a spendere meno delle risorse ad esso destinate in base al criterio dei costi standard, potrà trattenere il surplus; fermo restando, naturalmente, che il livello essenziale delle prestazioni pubbliche ­– cioè il minimum, quantitativo e qualitativo, di un dato servizio, al di sotto del quale gli enti locali non potranno scendere ­– sarà determinato una volta per tutte con legge dello Stato.  
I decreti attuativi, inoltre, apprestano misure punitive nei confronti degli amministratori incapaci: il “governatore” che mandi “in rosso” la propria regione rischierà la rimozione dall’incarico, andando pure incontro ad un taglio dei rimborsi delle spese elettorali destinati alla lista che l’aveva sostenuto.
Per le ipotesi di definitivo dissesto dell’ente amministrato, la riforma non esita a delineare un vero e proprio “fallimento politico” a carico di sindaci e presidenti di provincia giudicati responsabili dalla Corte dei Conti: le sanzioni saranno l’ineleggibilità decennale e l’interdizione dalle cariche detenute presso gli enti pubblici.
Le contromisure ai rischi di sperequazione
Certo, il pericolo di disuguaglianze è dietro l’angolo, e sarebbe ingenuo nascondersi che qualora il federalismo fiscale venisse improvvidamente applicato senza gradualità né contemperamenti, finirebbe probabilmente per alimentare il divario tra nord e sud, minacciando persino l’unità nazionale, giacché le disparità assurgerebbero al rango di logica di sistema. Proprio per questo, la riforma oggi in fase di attuazione prevede anche dei meccanismi di compensazione degli squilibri: onde evitare che il reinvestimento sul territorio di provenienza dei capitali prodotti dalle regioni più ricche ­– e la conseguente sottrazione di parte degli stessi fondi a quel che è stata sin qui la loro destinazione, e cioè il ripianamento del debito delle regioni meno virtuose ­– inneschi un meccanismo perverso per cui i territori opulenti continuino a crescere e quelli poveri s’impoveriscano sempre più, saranno costituiti appositi fondi perequativi in favore di regioni, province e comuni più deboli.
Queste, per così dire, le buone intenzioni della riforma; permane ovviamente il rischio che la sua concreta attuazione frustri le aspettative, privilegiando le mire speculative di una parte del Paese a scapito dell’uguaglianza dei diritti e delle opportunità tra tutti i cittadini. Si tratta di una minaccia concreta che alimenta paure diffuse, le quali rischiano, a loro volta, d’imbrigliare ogni afflato riformatore, condannandoci all’immobilismo; sarebbe meglio esorcizzare queste paure con l’interesse e la partecipazione: nella fattispecie seguendo attentamente le diverse tappe dell’attuazione della riforma, e poi attivandosi affinché la propria voce giunga agli organismi politici decentrati, i quali saranno dotati di poteri e autosufficienza sempre crescenti. Il federalismo fiscale, potenziando le autonomie, promette, tra le altre cose, di dare maggior peso ai singoli: la defezione o il disinteresse da parte nostra sarebbero perciò la colpa più grave.  

                                                                                                                                   Marco Giorgetti       
    

sabato 1 gennaio 2011

"La costituzione materiale, questa misconosciuta"

Pubblicato su "Il Consulente Re" on-line di Novembre 2010



Fino a qualche mese fa si parlava in continuazione di “costituzione materiale”. Pregiato strumento concettuale concepito dalla nostra migliore dottrina costituzionalista, quest’espressione veniva utilizzata dai politici a mo’ di orpello dialettico – esibito in contrappunto alla nozione di “costituzione formale”, cioè quella scritta – utile, alla bisogna, ad accreditare pratiche irrituali, e persino ad affermare l’avvenuta cristallizzazione di fantomatiche consuetudini contra legem.    

Anche in democrazia, del resto, la politica si serve dei propri mezzi come può, talvolta con lungimirante virtù, talaltra con egoismo miope, badando soprattutto al proprio tornaconto, come se le sorti di chi governa potessero prescindere dal pubblico consenso. A volte proprio l’origine democratica della legittimazione del potere può favorire il diffondersi di quell’ipocrisia di Stato che va sotto il nome di demagogia. E non c’è demagogia che non contenga un pizzico di populismo, perché i desideri e i malumori dell’elettorato sono spesso suggeriti – o addirittura indotti – dalla stessa classe politica, che dovrà poi far mostra di saperli interpretare. Questa rischiosa deriva dei sistemi democratici si manifesta sovente attraverso l’utilizzo improprio, all’interno del dibattito pubblico, dei concetti giuridici fondamentali: soprattutto dei concetti teorici, giacché intorno al diritto positivo i margini di manovra risultano inferiori, tra l’altro grazie a meccanismi di garanzia indipendenti dal potere politico – e le ragioni di tale indipendenza si comprendono meglio proprio in quest’ottica.
Ma poiché l’incombente attualità di questi temi espone chi li affronta ad un invincibile sospetto di faziosità – così tra l’altro sottraendo vigore all’intero ragionamento – lasciamo da parte i profili politici del problema, e veniamo subito agli aspetti giuridici.

Costantino Mortati e la costituzione in senso materiale 

La promulgazione della Costituzione
La nozione di costituzione materiale è dovuta all’elaborazione di Costantino Mortati (1891-1985), insigne costituzionalista italiano, tra l’altro membro dell’Assemblea costituente e della Commissione dei 75, incaricata, all’indomani del referendum del 1946, di elaborare il progetto di Costituzione repubblicana. Precursore di un approccio dinamico al fenomeno giuridico, che costituirà la cifra del costituzionalismo del ‘900 – mai più, successivamente, si analizzerà un testo costituzionale a prescindere dal contesto politico e sociale nel quale esso è destinato a trovare concreta applicazione –  Mortati già nel 1940, ne “La costituzione in senso materiale”, accredita un ideale di Carta Costituzionale da costruire ed interpretare come rappresentazione formalizzata dei rapporti di potere effettivamente esistenti tra i diversi attori sociali, quali i partiti, la magistratura, i sindacati, le associazioni dei datori di lavoro, le istituzioni religiose e le organizzazioni laiche. Tramontato il monopolio sulla politica esercitato dallo Stato liberale – modello a suo tempo teorizzato dai vari Machiavelli, Bodin e Hobbes, uno schema che per alcuni versi ripeteva gli stilemi del pensiero aristotelico, per il quale pòlis e politica risultano inseparabili – Mortati si preoccupa di riuscire a formalizzare adeguatamente il possibile scollamento tra legge scritta e legge applicata – il cosiddetto diritto vivente – tipico di una società in cui il conflitto sociale risulta esteso a tanti e diversi attori, ciascuno dei quali è in grado, benché in diversa misura, di far sentire le proprie ragioni, riuscendo potenzialmente ad incidere sul nuovo rapporto di forze che sortirà da ciascuno scontro. A ben guardare, infatti, anche nuove leggi, una nuova giurisprudenza, un nuovo contratto collettivo o nuovi atti dell’esecutivo possono configurare una costituzione inedita dello Stato – una costituzione di fatto, com’è ovvio – teoricamente la più distante e scollegata dal testo della Costituzione scritta.

La complessità nell’ordine democratico: la costituzione come cantiere
La causa profonda di un siffatto pericolo coincide tuttavia con il principale pregio di una costituzione realmente moderna, e cioè con la sua effettiva capacità di dare attuazione al principio democratico, garantito dal dogma della separazione tra i poteri. A conferma di ciò si può notare che il meccanismo, ben più schematico, dello Stato liberale funzionava egregiamente all’interno di un’organizzazione statuale nella quale il potere politico era appannaggio esclusivo di una sola classe sociale, la quale spesso reggeva lo Stato dopo averlo in qualche modo eretto con le proprie mani, ad esempio attraverso una rivoluzione.
La democrazia, in sostanza, importa complessità; essa addirittura riposa su questa complessità, poiché la logica inclusiva, intrinseca ad ogni dialettica sociale, genera già sul piano quantitativo il moltiplicarsi delle voci legittimate a partecipare; per non dire della macchinosità degli strumenti necessari a governare lo svolgersi del dibattito, indispensabili affinché il dialogo non si trasformi in sterile baccano.    
Secondo questo criterio evolutivo, la Costituzione non è tanto la madre di tutte le leggi, ma piuttosto la figlia dello stato di fatto capace di produrre un cambiamento della costituzione materiale, rivelando che i gruppi d'interesse meglio rappresentati dalla Costituzione scritta sono divenuti ormai incapaci di difendere la “loro” Costituzione. Si tratta di uno sguardo sul fenomeno costituzionale assai innovativo e disincantato, del quale tuttavia non si possono negare le indubbie qualità euristiche.

Fenomenologia e funzione del partito politico: la socializzazione dello Stato
Si può dire che allorché l’unità politica non fu più intrinseca alla statualità – perché, come detto, non più garantita da una sola classe sociale egemone, che era riuscita ad affermare come costituzione il suo progetto di società – fu necessario costruirla a partire dalla società, cioè dall’esterno dello Stato, perché quest’ultimo non era più l’unità politica, ma un mezzo per realizzarla. Ed ecco, allora, che secondo la teoria della costituzione materiale di Costantino Mortati, il partito costituisce il centro extra-statale di aggregazione delle istanze sociali, e perciò, al contempo, organismo di semplificazione e di direzione politica. La costituzione materiale risulta perciò definibile come un’unità raggiunta attraverso la vittoria di una parte degli interessi sociali su tutti gli altri; essa incarna l’ideale del solo partito politico dominante. Ebbene, l’integrazione, resa possibile dall’azione dei partiti, tra istanze sociali e indirizzi politici della nazione, genera quella socializzazione dello Stato che costituisce la nota distintiva e la principale innovazione della speculazione del Mortati.

La costituzione nel suo sviluppo dialettico
Secondo questo approccio, il concetto di costituzione materiale – ben lungi dal costituire un polo conflittuale che minacci continuamente d’insidiare il vigore della Costituzione scritta – vale a descrivere, probabilmente assai meglio di ogni altro, il faticoso percorso dialettico attraverso il quale la Costituzione in senso formale trova attuazione. La vita di un testo costituzionale è infatti un percorso accidentato, le cui fasi risultano tutte caratterizzate dal sigillo della opposizione – poiché l’ordine ideale che essa descrive a parole necessita, dopo esser stato concepito, quasi di un nuovo parto, non meno faticoso, per incarnarsi nelle strutture dell’ordine sociale.
Una Costituzione sarà interpretata, permeerà di sé l’intero ordinamento statuale e finirà un giorno per manifestare qualche crepa, qualche insufficienza; oppure sarà necessario mettervi mano semplicemente per restaurarla, onde riportarla, come si suol dire, “al passo con i tempi”. E giacché una Costituzione riformata, quanto al suo aspetto esteriore, altro non è che una nuova Costituzione in senso formale, si comprende, finalmente, che la costituzione materiale è semplicemente la Costituzione applicata, la stessa Costituzione formale che nutre dal proprio interno ciascuna delle strutture dello Stato, conferendo loro armonia ed unità.
Alla fin fine, gli aggettivi “formale” e “materiale”, applicati ad una costituzione, non indicano due momenti logicamente o cronologicamente distinti della sua esistenza, ma piuttosto due diversi aspetti della sua natura. Per comprendere appieno tale distinzione sarà utile far riferimento alle famose quattro cause di Aristotele: tra di esse, come si ricorderà, figurano per l’appunto la causa formale e la causa materiale, e si ricorderà pure che ciascun ente della realtà ha bisogno di entrambe per essere quel che è. Ad esempio la statua di Apollo – per evocare il classico esempio che si faceva al liceo – è composta tanto dal marmo, che ne costituisce perciò la causa materiale, quanto dalla figura complessiva del dio delfico. La sola immagine del dio greco resterebbe una pura idea se slegata dalla materia che gli dà corpo; parimenti la sola materia, senza forma, altro non sarebbe che un blocco di marmo amorfo. Ebbene, allo stesso modo, una pura Costituzione in senso formale è solo un libro inerte, al più descrittivo di un ordine ideale; così come una costituzione in senso materiale che pretendesse di prescindere da un organico progetto del suo funzionamento – quand’anche di natura meramente consuetudinaria, come accade in Gran Bretagna –  finirebbe per rivelarsi un gratuito esercizio di anarchia.
Costituzione in senso formale e costituzione in senso materiale non sono che due facce della stessa medaglia; pretendere che la seconda prevalga sulla prima si palesa esercizio ingenuo o, al più, malizioso; e così altrettanto ingenuo sarà arroccarsi sulla prima a guisa di difensori della patria, illudendosi che ciò basti a soffocare gli aneliti del diritto vivente.

sabato 20 novembre 2010

"Laicamente laici": riflessioni sul concetto di laicità

Pubblicato su "Il Consulente Re" on-line  di Gennaio 2010



Fu Robert Musil, nel suo sferzante cinismo, ad evocare il tarlo di una pericolosa deriva autodistruttiva che gli ideali sempre coverebbero nel proprio intimo, quasi si trattasse di un principio negativo di se stessi maliziosamente mescolato alla loro essenza, come una malattia congenita e mortale; egli affermò che “gli ideali hanno strane proprietà, fra le altre anche quella di trasformarsi nel loro contrario quando si vuol seguirli scrupolosamente”.
    Tra tutti i principi, le nobili ambizioni e le virtù che da questo rischio sono insidiati, nessuno si mostra più esposto al pericolo di una simile implosione dell’attuale concetto di “laicità”.
    Sarebbe lungo e noioso ripercorrere le diverse tappe storiche attraverso le quali il principio di laicità si è imposto come uno dei cardini costituzionali degli Stati di Diritto moderni; è necessario però riconsiderare criticamente un paio di aspetti che la frettolosa enfasi giornalistica finisce spesso per lasciare in ombra, consegnando alla coscienza sociale un’immagine un po’ distorta della nozione di laicità. Mi riferisco, in primo luogo, all’idea diffusissima, e ormai penetrata nel senso comune, che il principio di laicità dello Stato sia in buona sostanza una conquista delle rivoluzioni liberali, le quali lo avrebbero prima coniato e poi affermato a scapito delle mire teocratiche delle diverse Chiese europee, e in particolare di quella Cattolica.
    Ora, in relazione alla nascita, per così dire all’invenzione, del concetto di laicità, si segnala l’episodio, risalente addirittura al V secolo d.C., della lettera inviata da Papa Gelasio all’Imperatore Anastasio I, la quale recita: “Due sono, Augusto Imperatore, i poteri dai quali principalmente questo mondo è retto: la sacra autorità dei pontefici e la potestà regale“. Trascurando i dibattiti colti sorti intorno ad un’eventuale classificazione gerarchica tra l’auctoritas e la potestas secondo il diritto romano – la quale permetterebbe di ricondurre l’auctoritas al potere legislativo e la potestas all’esecutivo, così da insinuare il dubbio circa le mire teocratiche di Papa Gelasio – rimane il fatto storico dell’affermazione, da parte del Papa, di una radicale distinzione fra titoli di legittimazione all’esercizio di due poteri chiaramente separati già nella loro fase genetica: quello spirituale da una parte, quello temporale dall’altra. Né c’è da stupirsi del fatto che sia proprio un Papa a rendere una simile dichiarazione: nei Vangeli, infatti, il principio di laicità è sufficientemente delineato dalle parole di Cristo stesso, il quale non solo afferma: “Il mio Regno non è di questo mondo” (Gv 18, 36), ma ancor più esplicitamente, per ciò che qui ci riguarda: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (Mt 22, 21).

    Passando all’analisi dell’affermazione storico-giuridica del principio di laicità dello Stato, questa si può attribuire effettivamente, nella sua compiutezza, al successo delle rivoluzioni liberali in Europa, in particolare alla rivoluzione francese e a quella inglese. Non si può però trascurare il fatto che il concetto di laicità, così come formulato negli stessi sistemi giuridici dei Paesi che per primi lo portarono alla ribalta, presenta delle contraddizioni e delle criticità che sarebbe ingenuo e controproducente nascondere dietro i trionfalismi di un’ideologia allora solo antagonisticamente sbandierata .
    La laicità, infatti, è sempre stata declinata in Francia secondo schemi rigidamente separatisti, i quali se da un punto di vista meramente nomenclatorio hanno suggerito persino la definizione di “laicità negativa” – che rinvia quindi al disinteresse, da parte dello Stato, per la questione religiosa tout court – sul piano sostanziale hanno finito talvolta per mortificare le diverse espressioni della libertà di culto.
    Quanto all’esperienza inglese e all’effettività del principio di laicità all’interno di quell’ordinamento, basti pensare al fatto che ancora oggi la Regina, oltre al suo ruolo istituzionale interno, ricopre al contempo la carica di… Governatore Supremo della Chiesa Anglicana!
    Non esiste quindi, rispetto al principio di laicità, un assetto politico-istituzionale ideale, in grado di garantire, al contempo, tanto la massima libertà di culto e di manifestazione del credo religioso, quanto la netta separazione del potere temporale dalla sfera delle attribuzioni spirituali riservate alle autorità religiose.
    Superfluo riferire dell’ Italia: benché qui la notevole diffusione del cattolicesimo tra la popolazione sia indiscutibile, e la legislazione, sia costituzionale che pattizia in materia di Diritto Ecclesiastico, sia giudicata dagli studiosi tra le più equilibrate ed efficaci del mondo, restano sempre vive le polemiche circa l’affermata ingerenza della Chiesa Cattolica – che del resto ha il suo cuore pulsante a Roma – nelle faccende politiche.
    Questione annosa, quindi, quella della laicità dello Stato: se per secoli i “due soli” si sono contesi la supremazia nella guida degli uomini, nell’età moderna e persino nell’epoca contemporanea un millantato equilibrio formale tra i due poteri, fondato sulla separazione reciproca, non è stato sufficiente a garantire non solo la libertà di tutti – si pensi alle diverse nazionalizzazioni dei beni ecclesiastici operate in Europa e alle Leggi Siccardi  in Italia (1850-1855) – ma persino la pace tra i popoli – basti pensare agli accessi d’odio religioso che si sono manifestati in occasione delle guerre dei Balcani. 
    Oggi un’Europa incerta sulla propria identità è chiamata a resistere alle insidie del multiculturalismo, fenomeno di rimescolamento etico, religioso e culturale che rischia di minare le fondamenta delle nostre democrazie. Gli attacchi terroristici sferrati dai gruppi più integralisti di un Islam magmatico ed eterogeneo, col quale pertanto risulta difficile persino dialogare, non sono che la punta dell’iceberg di un conflitto che riguarda in realtà visioni apparentemente inconciliabili dei rapporti tra fede e diritto.

    Bisogna ammettere che in alcuni frangenti l’Occidente, soprattutto la vecchia Europa, è tentato di dolersi dell’incapacità di difendersi dalla penetrazione islamica secondo gli stessi schemi, giuridicamente e religiosamente monolitici, ai quali è informata la cultura musulmana. A volte si ha l’impressione che la mancata comprensione, da parte nostra, del contenuto profondo e autentico del principio di laicità possa indurci all’aberrazione di rimpiangere assetti politico-istituzionali arcaici e polverosi, dai quali ci siamo faticosamente e meritoriamente affrancati soprattutto grazie alle categorie giuridiche greco-romane e all’impronta giudaico-cristiana, entrambi cromosomi insopprimibili del nostro DNA culturale.
    Anche alcune vicende recentissime, ad esempio la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sulla presenza del crocifisso nelle aule scolastiche italiane e il Referendum sulla costruzione di nuovi minareti in Svizzera, ci hanno restituito l’immagine di un’Europa divisa e balbettante in tema di regolamentazione delle espressioni religiose.
    E’ innegabile che molte e molto divergenti tra loro sono le opinioni espresse da più parti in ordine al problema della convivenza tra le diverse fedi in Europa, e diversissime sono pure le ricette proposte per la sua soluzione. Dimostreremmo tuttavia di aver appreso assai poco dalla nostra storia se ci lasciassimo disorientare da questa palese molteplicità di vedute: la sfida attuale consiste piuttosto nel mostrarci in grado di rispondere alla violenza conformista e ghettizzante del fondamentalismo secondo il modello lungimirante, inclusivo e dialogante proprio del concetto genuino di laicità.                                          
    La parola “laicità”, d’altra parte, non affonda le sue radici nella distinzione canonistica fra clero e laicato, ma più genuinamente – più laicamente verrebbe da dire – nel sostantivo greco laòs, il quale sta ad indicare semplicemente il popolo della pòlis, una moltitudine policroma eppur capace di esprimere, attraverso le forme del diritto, una democrazia compiuta, fondata semplicemente sulle regole razionali della consuetudine e del buon senso – oggi potremmo dire del diritto naturale, purché si rinunci a quel poco di arroganza che talvolta si cela dietro quest’espressione.
    A ben guardare, infatti, gli anacronismi giuridici che l’integralismo islamico porta con sé si neutralizzano naturalmente al primo contatto con la civiltà del diritto: il reato d’apostasia, la subordinazione della donna e la poligamia, solo per fare degli esempi, non sono già di per sé in contrasto con il principio d’uguaglianza, con la libertà di pensiero e di coscienza? In relazione a simili distorsioni del sistema giuridico islamico – spesso affetto dalle categorie passatiste di una morale religiosa da reinterpretare – l’evocazione delle nostre categorie religiose e l’aspirazione ad un recupero dell’orgoglio cristiano possono suonare vagamente strumentali e inautentiche, cioè in fondo clericali: l’opposto di una schietta laicità.
    Del resto la logica, realmente laicale, dell’astensione dall’esercizio di un giudizio di matrice identitaria è profondamente radicata nel Vangelo, soprattutto nella critica al fariseismo; almeno questa a me pare la principale indicazione del “chi è senza peccato scagli la prima pietra” (Gv 8,7).
    La via del dialogo aperto, accompagnato da una doverosa intransigenza sui principi d’uguaglianza cui sappiamo di non poter abdicare, manifesta di per sé la profondità delle nostre radici culturali, che attingono inevitabilmente la propria linfa dall’humus perenne del diritto e della ragione, cioè in fondo dai concetti di libertà e di carità. Sono queste le grandi strutture della cultura occidentale dalle quali non possiamo non trarre il coraggio necessario per affrontare le sfide del futuro: a fronte di quest’abissale sapienza, per sempre inscritta nella nostra identità, le distinzioni effimere tra clericali e laicisti ci condannano ad una divisione interna che c’indebolisce proprio nella misura in cui ci priva della lucidità di avere ben presente chi siamo davvero.
    In questo senso lo stesso concetto di laicità ha bisogno oggi di essere laicamente reinterpretato, cioè rielaborato con una maturità che ci renda capaci di ricollegarlo alle nostre origini, alla nostra forza, e non alle nostre debolezze, troppo spesso dovute ad un’incomprensibile tendenza alle differenziazioni bigotte e ai conflitti fratricidi.

Appunti per un umanesimo giuridico


Per analizzare la questione del possibile assoggettamento della Scienza del Diritto ad una nuova logica efficientista ed utilitarista – che abbia così il suo fulcro  nel dato economico o nel ritrovato tecnologico, i quali perverrebbero in tal modo per via traversa a costituire il vero elemento normativo del diritto – che soppianti in definitiva gli schemi del positivismo giuridico disciplinati dalle regole dell’ermeneutica, è possibile in astratto percorrere due strade alternative: l’una non potrà che essere fondata sul dato d’esperienza, il quale pare in effetti suggerire una sostanziale divaricazione del corso del cosiddetto “diritto vivente” rispetto all’alveo segnato dalle disposizioni formali, quasi che la vita del diritto si ribellasse alle pastoie che il  formalismo giuridico, e la Costituzione rigida in primis, vorrebbero imporle (via storico-giuridica); l’altra strada consisterà invece nell’indagare – ed è questo l’aspetto che a me interessa, essendo il primo senz’altro riservato all’analisi dei giuristi  per così dire “puri” – gli sviluppi della filosofia moderna e contemporanea, onde sondarne le linee guida, per sincerarsi che non accada anche in questo settore, come invece a me sembra, che la normatività precedentemente indiscussa di certi concetti-chiave finisca ai giorni nostri per perdere d’intensità, in conseguenza dell’impoverimento – prima metafisico e poi inevitabilmente pure deontico – del valore attribuito da alcuni fondamentali filosofi del nostro tempo alla stessa idea madre della filosofia, e cioè al concetto di “essere” (via filosofica).    
    Per quanto concerne la seconda delle ricerche appena delineate – e proprio nell’ottica del ribaltamento e dell’impoverimento cui si è fatto riferimento – è impossibile non soffermarsi sul pensiero di Martin Heidegger. Sarà il caso di approfondire il tema delle ricadute nel campo del diritto della nuova ontologia fondata proprio, e non a caso, da colui che è considerato al contempo l’ultimo dei fenomenologi e il primo degli esistenzialisti; tuttavia in questa sede mi preme soltanto rilevare come non possa non produrre conseguenze anche giuridiche l’approccio heideggeriano al problema dell’Essere: egli infatti – eludendo apparentemente il problema dell’Essere inerente agli enti, intesi per lo più come oggetti, e quindi innanzitutto come oggetti d’osservazione – appunta il proprio sguardo in via preliminare sul soggetto conoscente, cioè sull’osservatore (l’uomo o Da-sein, Esser-ci, nel lessico heideggeriano), notando in primo luogo che l’uomo si caratterizza per la propria riluttanza a lasciarsi ridurre alla nozione di Essere comunemente accettata dalla filosofia occidentale, da Platone in avanti.
    L’Essere proprio dell’uomo non è in effetti riducibile agli schemi della mera presenza – operazione invece tutto sommato lecita nello studio degli altri enti – essendo il proprium della natura umana rappresentabile non tanto secondo gli schemi abituali del mero essere (o essere presente) che pare contrassegnare tutti gli altri enti, ma piuttosto secondo il dinamismo di un progettare incontenibile, che costituisce non a caso la peculiare lente d’osservazione dell’Esistenzialismo.
    In riferimento a quel che a noi interessa, è necessario osservare come il nuovo schema esistenzialista produca in fondo un ribaltamento dei poli normativi, sia in prospettiva etica, sia, inevitabilmente, in prospettiva giuridica: non saranno più infatti gli enti, gli oggetti del mondo, ad imporre la propria intrinseca assiologia, e quindi la propria carica deontica, alla coscienza umana: se infatti il mero “esser presenti” degli oggetti non è più riconosciuto quale unica e suprema manifestazione dell’esistere (dell’”atto di essere” avrebbe detto San Tommaso), se dunque la scienza degli enti nel proprio manifestarsi non è più ontologia ma soltanto ontica (giacché di loro si sa solo che si manifestano, e anzi che vengono percepiti, ma s’ignora che cosa essi siano in sé, e soprattutto che cosa sia quell’Essere del quale essi paiono in qualche modo partecipi), allora inesorabilmente si scioglie anche quello “schematismo trascendentale”, con parole kantiane, che nella storia della filosofia ha sempre reso possibile l’affermazione di valori morali, giuridici e in genere deontologici sulla base di un’indiscussa fiducia nel senso dell’Essere manifestato dalla realtà nel suo semplice apparire. In un certo modo siamo qui ancora di fronte alla famosa “ought-being question”, solo che con Heidegger il problema del ponte tra essere e dover essere è posto in secondo piano in un baleno, poiché perderà subito interesse: se la scienza degli enti è solo ontica e non più autentica ontologia, a chi interesserà analizzare in qual modo gli oggetti d’osservazione impartiscano all’osservatore delle direttive etiche in grado di fondare una morale o una Scienza del Diritto? Sarà piuttosto l’osservatore stesso, e cioè l’uomo, a dover ricalibrare in base al valore attribuibile soltanto alla propria esistenza una nuova significatività da conferire a tutto il resto del reale. E in questo è impossibile non ravvisare l’eco di certe grida nietzscheane e il presagio, o forse l’ispirazione, di simillimi assunti sartreiani.
    Sarà pur vero che da Heidegger in avanti la realtà assumerà, sotto lo sguardo dell’uomo, i connotati familiari di un vero e proprio mondo (Welt), cioè di uno spazio aperto a tutte le possibili proiezioni umane: interpretazioni, aspirazioni, istanze morali, slanci estetici e quant’altro, tuttavia a me pare che un ecosistema metafisico destituito della propria dignità ontologica – cioè una realtà del cui fondamento si possa e si debba in definitiva dubitare – non possa mai rappresentare null’altro, per l’umanità, che un orizzonte gnoseologico e morale muto ed estraniante.
    Infatti Heidegger, partendo dalla sua critica all’ontologia classica, passa subito ad analizzare – e qui con piglio smaccatamente fenomenologico – i diversi ambiti in cui la progettualità umana – ingenuamente imbellettata, col suo corredo di libertà “nuove” e apparentemente riconquistate – si esplica nei diversi ambiti dell’esistenza: ed è qui che tutti i nodi vengono al pettine. Sia che si tratti infatti del rapporto strumentale che l’uomo intrattiene con gli oggetti del reale (in der Welt sein), sia che si analizzino invece le relazioni tra esseri umani (mit sein), proprio la progettualità dell’esistenza – cioè l’eigen dell’essere umano, che costituiva la ragione e il fondamento della rivoluzione ontologica heideggeriana – si vede di continuo frustrata, ridotta e in sé tradita dalle contingenze che la realtà le contrappone di continuo. E’ proprio come se il mantice in espansione del progettare umano, simbolo e cifra di ogni trascendenza, si riscoprisse sempre, a confronto con la limitatezza che la realtà gli impone, null’altro che polmone asmatico.
    In relazione a questo limite intrinseco al sistema di Heidegger (il famoso tema della “deiezione”), infatti, si suole parlare di “nichilismo heideggeriano”, proprio a sottolineare che l’ultimo degli “Esistenziali”, l’”Essere – per – la – morte” (zum Tode sein), non è tanto l’unico atteggiamento decoroso dinanzi all’ineluttabilità della morte, ma piuttosto la sola disposizione morale accettabile di fronte ad un evento che renderà retrospettivamente inconsistenti, e perciò impossibili, tutti i precedenti slanci progettuali.
    Questo breve excursus critico sul pensiero heideggeriano può giovare ai nostri fini nella misura in cui ci suggerisce che il pensiero del filosofo esistenzialista è tanto acuto e stimolante nella sua parte analitica – nella quale in fondo ci mostra come i concetti classici di Essere ed Ente si siano corrosi nel corso della storia del pensiero, e necessitino quindi di una rifondazione, se non addirittura di un capovolgimento di prospettiva – quanto insufficiente nel momento parenetico, in cui in definitiva il soggetto non può far altro che prendere atto della strutturale impossibilità, da parte della libertà umana, di darsi compimento a prescindere da una corrispondente significatività ontologica riconosciuta agli enti inanimati e alla natura in genere.
    Un filosofo classico direbbe che, allorché non si riconosca tanto agli enti quanto all’uomo una comune partecipazione al medesimo principio ontologico – l’Essere appunto – si finirà inevitabilmente per lasciare l’umanità in balia di un mondo incomprensibile e incomunicabile. Non ci sarà più spazio né per una gnoseologia, né tanto meno per un’etica, che rendano ragione dell’istintiva libertà che l’uomo in sé percepisce come anelito e come compito aperto, la quale in tutti i suoi slanci pare sempre rinviare ad un mondo esterno che sia al contempo sorgente e deposito di inesauribile significatività. Con altre parole si potrebbe affermare che non appena si dubiti della consistenza metafisica dell’intera realtà, si finirà per dubitare anche di se stessi.
    La natura, nel suo divenire, reclama una forma di osservanza non dissimile da quella che solitamente si reputa degna della più sacra delle leggi (observare infatti è verbo riferibile tanto ad una disposizione dell’animo verso qualsiasi forma di normatività, quanto ad un’attitudine dello sguardo nei confronti del proprio oggetto): il dinamismo naturale esprime un finalismo – rilevante tanto sul piano epistemologico quanto su quello deontologico – il quale non può essere sminuito se non si vuol correre il rischio, poi, di non saper più rendere ragione neanche della tendenza umana alla giustizia, alla bellezza, alla verità e a tutte le virtù, etiche e dianoetiche, che costituiscono alla fin fine il compimento e la giustificazione del conato irriducibile che definiamo libertà.
    Non si comprende, ad esempio, la regola di diritto naturale che prescrive di non uccidere se non in virtù di uno sguardo partecipe e consenziente nei confronti dello sforzo che tutta la natura pare profondere verso il fine della conservazione della vita: così è la vita stessa che manifestamente prescrive di non uccidere. Nel momento in cui si sottrae significatività, e quindi valore, agli andamenti naturali e allo statuto ontologico degli enti, si rischia di non aver poi più nulla da dire in sede scientifica, estetica, etica, giuridica e deontologica in genere. La potestà normativa che si riconosce al reale è direttamente proporzionale al peso metafisico che nella realtà stessa si è disposti a rinvenire.
    Trovo tuttavia che l’analisi heideggeriana sia senz’altro lucida e stimolante fin quando si limita a rappresentare il valore attualmente assunto dalla tecnica nel mondo occidentale, nella misura in cui il filosofo denuncia l’”oblio dell’Essere” in favore di un attivismo efficientista che ha in realtà già sofisticato lo spirito autentico dell’esistenzialismo, avendo privato l’uomo delle domande umane, e avendogli fornito in cambio la chimera di una pienezza immanente in verità mai attingibile. Non per nulla lo stesso Heidegger giungerà ad ammettere che “solo un Dio può salvarci”, proprio perché lo scollamento prodotto dalle sue stesse intuizioni tra momento ontologico e momento etico reclamerà per il futuro un intervento salvifico dall’alto, giacché l’uomo si è scoperto ormai incapace di sondare il senso dell’essere e di attingerne in definitiva gli strumenti per la soddisfazione del proprio impulso alla libertà.
    Il fare tecnico – l’agire strumentale – non potrà mai sostituirsi alla retta ragione della prassi morale, poiché il risultato dell’agire umano non è mai esclusivamente transitivo: i suoi effetti, cioè, non intervengono solo a modificare l’oggetto dell’azione – l’ente materiale e apparentemente solo passivo – ma si ripercuotono sempre sul soggetto stesso, decretandone la rettitudine o la disonestà, la giustizia o l’iniquità. Per questo in Heidegger la sensazione suscitata dell’eventualità della perdizione – cioè l’emozione prodotta dalla responsabilità umana di potersi realizzare o smarrire in ciascuna delle proprie azioni – sarà costituita dall’angoscia (Angst), definita proprio “sentimento del nulla possibile”.
    Le riflessioni heideggeriane suggeriscono in ultima analisi che il potere della tecnica – e quindi delle nuove tecnologie e dei grandi meccanismi di programmazione economica su larga scala, tipici del nostro tempo – è tale da indurre l’umanità a dubitare della significatività del mondo, fino ad indurla a spostare l’asse della ricerca filosofica dal problema dell’ente alla superfetazione esistenzialista. Non mi pare infatti che il concetto stesso di esistenza aggiunga alcunché alla comprensione della libertà umana; mi sembra piuttosto che sottragga al fenomeno spirituale della libertà il fondamento ultimo costituito dall’idea di vita in senso biologico; quest’idea smarrisce infatti a mio giudizio gran parte del suo contenuto se dissociata dalla condivisione dinamica, assieme a tutti gli altri enti, di un comune fondamento metafisico, difficilmente rinvenibile al di là dei confini classici della nozione di Essere.
    Nella nostra prospettiva quindi, tanto sarà utile tener presenti le indicazioni heideggeriane intorno allo smarrimento dell’Essere causato dalla dispersione dell’umanità nel vacuo agire tecnico, quanto dannoso potrebbe essere il cedimento alla tentazione di prestare il nostro assenso alla critica di Heidegger al concetto classico di Essere: al di fuori dell’Essere manifestato dagli enti c’è solo il nulla.
    Sul piano della Scienza del Diritto, pertanto, se è indispensabile accogliere le spie heideggeriane circa la nuova normatività dei risultati tecnici e delle innovazioni tecnologiche – normatività probabilmente superiore all’effettività ipotetica delle norme giuridiche – è al contempo necessario ribellarsi alla tentazione di abdicare al compito, proprio del giurista, di inquadrare il novum in un sistema coerente di regole, in senso classico, giuste; un simile sistema dovrà essere sempre un organismo in grado di conciliare le istanze pratiche del divenire tecnico e dell’innovazione del diritto vivente con la razionalità intrinseca alla deontologia umana, l’unica degna di una scienza.
    Il dominio del casualismo seriale proprio dell’avanzamento tecnologico e delle economie moderne fornirebbe certamente una non comune capacità predittiva sul corso futuro degli eventi, e persino un notevole dominio su di essi, tuttavia non garantirebbe in alcun modo la costruzione di un sistema teoretico all’altezza delle qualità richieste ad un ordinamento moderno. Un dominio male interpretato da parte del legislatore sui meccanismi tecnici della modernità, allorché fosse trasfuso negli articoli della legge, rischierebbe di non produrre altro che la fondazione di un’anacronistica forma di oligarchia. In questo senso è a mio avviso legittimo sostenere che persino un ipotetico dominio assoluto sulla tecnica, e anche sulla tecnica giuridica, non garantirebbe comunque in alcun modo la creazione di un ordinamento giusto.
    Se si riconosce pertanto che i fatti tecnici – dagli ultimi ritrovati tecnologici sino agli strumenti sinora ignoti dell’economia – possiedono al giorno d’oggi una capacità normativa superiore a quella espressa dal diritto, perché in concreto maggiormente effettiva, il problema del giurista non potrà mai essere quello d’impadronirsi della logica di governo propria della nuova tecnocrazia, ma piuttosto quello di rifondare un più ampio e razionale governo della Legge, in grado di dominare pure il profluvio pervasivo e a volte cieco dei mezzi tecnici più attuali.
    Con questo non si vuole affermare l’inutilità della conoscenza, da parte del giurista, dei meccanismi più intimi delle diverse branche della tecnica oggigiorno dominanti, s’intende però ribadire – aspetto che già gli esiti della filosofia heideggeriana hanno manifestato a sufficienza – che altro è la razionalità strumentale ed utilitaristica propria della tecnica, altro, e ben diverso, la logica egualitaria e strettamente raziocinante del fare giuridico: quest’ultimo non può mancare, talvolta, di reclinare il volto fiero della ragione e della certezza sulla necessità episodica del singolo, in se stessa per certi versi schizofrenica e irrazionale; se la ragione onnicomprensiva del diritto non cade nell’errore di dimenticare il fondamento umano della propria effettività, essa non potrà di conseguenza trascurare nemmeno il proprio dovere di rivolgersi all’umanità stessa in tutta la sua complessità, incluse persino le sue contraddizioni: così accade a volte che lo sguardo neutrale della giustizia ceda al fascino in qualche modo sentimentale dell’equità, e ciò sempre con preziosissimo rafforzamento dell’effettività dell’ordinamento.
    Quando il diritto rivendica la propria differenza rispetto a tutti gli altri saperi scientifici, il suo potere ne esce costantemente rinvigorito. E se c’è una differenza che deve sempre contraddistinguere la Scienza del Diritto rispetto alle diverse tecniche di dominio della natura e della società, questa non può che essere, a mio modo di vedere, la sua maggiore umanità.
    E’ questo l’insegnamento fondamentale che ci giunge, sia in positivo che in negativo, dalla lezione heideggeriana: l’umanità è la sola garante della propria libertà, e quindi anche l’unica custode di ogni giustizia.

Che cos'è questa bioetica?

Pubblicato su www.comunitanext.org



Il reperire, tra le tante fonti disponibili, una definizione di bioetica si rivela compito tutto sommato abbastanza agevole. Le diverse enunciazioni dello statuto “scientifico” della bioetica sembrano a prima vista divergere tra loro soltanto rispetto ad alcuni particolari trascurabili, tanto che si rischia di formarsi il convincimento che questa nuova “scienza” possieda, quanto meno, una notevole chiarezza di fondo in relazione al contenuto e all’estensione del proprio oggetto. Invece accade poi che, avendo preso le mosse da tanta apparente linearità epistemologica, ci si ritrova alla fine costretti a riferire della bioetica utilizzando – come sono stato costretto a fare – la parola “scienza” tra virgolette.   
    La bioetica, sospinta dal progresso scientifico e tecnologico nel campo biomedico e genetico, è indotta a scendere alle radici della vita. Così i suoi quesiti e le questioni che si trova ad affrontare inducono ogni uomo ad interrogarsi sull’esistenza o meno di un modello naturale di famiglia, sui possibili contorni di uno statuto ontologico del soggetto umano non ancora nato, embrione o feto che sia, sull'illiceità o meno dell'aborto, dell'eutanasia e degli interventi genetici a scopo terapeutico.
    Perciò, come accade per ogni problema umano che implichi una questione identitaria – tale per cui l’uomo stesso che si trova alla ricerca di una definizione finisce per esserne a sua volta definito –  il dilemma sullo statuto della bioetica si presenta come quel “vuoto spazio invisibile” di cui riferisce Robert Musil nel suo “Der mann ohne Eigenschaften” (“L’uomo senza qualità”) affrontando, non a caso, proprio il tema dell’identità.
    Mantenendo ben presente questa difficoltà di fondo, e per non sentirci costretti da una simile complessità ad una definitiva sospensione del giudizio, troppo simile a quell’epoché un po’ arrendevole di matrice scettica, passiamo ora ad analizzare i contenuti della bioetica, per poi tornare a riflettere a partire da quelli, ma allora induttivamente, sulla questione definitoria.
    Ebbene, la bioetica si propone di studiare sistematicamente la condotta umana nell’ambito delle scienze della vita e della cura della salute – in soldoni nel campo della biologia, con tutte le sue ramificazioni, e della medicina – esaminandola alla luce dei valori e dei principi morali. L’enunciazione, appena riportata, dei confini che contrassegnano l’oggetto materiale e formale della bioetica sarebbe senz’altro sufficiente ad integrare anche una soddisfacente definizione della stessa, se solo però esistesse tra gli studiosi un qualche accordo almeno riguardo il significato del termine “vita”: quanto poi alla possibile moltiplicazione dei differenti punti di vista intorno al concetto di “valore morale”, lascio alla fantasia del lettore la più sfrenata libertà d’immaginazione.
    Insomma, tra i diversi studiosi si riducono i punti di convergenza e crescono esponenzialmente i contrasti; in definitiva lo sguardo di chi voglia attraversare analiticamente il labirinto della bioetica per ricavarne uno statuto unitario di scienza, si ritrova scomposto e deviato, come un fascio di luce ad opera d’un prisma, da una miriade di difficoltà, impedimenti, distinzioni e precisazioni via via più capillari e particolaristiche ad opera di una schiera disomogenea di addetti ai lavori i quali, tra l’altro, non appartengono neanche ad un unico settore disciplinare. Osservando, infatti, il panorama di filosofi, giuristi, teologi, biologi, medici e altre categorie professionali che si occupano di bioetica, la patente disomogeneità nell’approccio scientifico che le caratterizza finisce per suggerirne una classificazione che sia basata, come extrema ratio, non sui caratteri epistemologici delle tesi che esprimono, ma sui loro differenti presupposti ideologici: si distingue in tal modo tra una bioetica laica ed una bioetica personalista; e sarà il caso di accennare alle caratteristiche che contraddistinguono queste due differenti impostazioni, se desideriamo scorgere, finalmente, non addirittura che cosa sia la bioetica, ma almeno che cosa questa non sia o non dovrebbe mai essere.
     La bioetica laica, sulla base dell’evidenza che non esiste un’etica universalmente condivisa, stabilisce, quale presupposto necessario e perciò incontestabile, che non se ne possa creare una "assoluta": pertanto afferma esclusivamente la possibilità di un’etica procedurale, fondata cioè sul libero accordo tra i soggetti coinvolti. Il relativismo etico proprio della nostra cultura è così pienamente accolto e riaffermato, e la morale della bioetica viene assunta quale ulteriore forma di “contrattualismo”. La principale conseguenza di un simile atteggiamento non può che consistere nella ridefinizione del valore della vita alla luce di una valutazione caso per caso della sua “qualità”; il che avviene in primo luogo in rapporto al grado di sviluppo biologico della vita stessa, per cui si distinguerà la “vita umana personale” dalla “vita umana non-personale”, introducendo una delicatissima differenziazione tra “essere umano” e “persona”. In secondo luogo si giudicherà la vita in rapporto alle condizioni cliniche dei singoli individui, per cui si tenderà a distinguere tra vite degne e vite non-degne di essere vissute.
    Circa le possibili criticità delle posizioni della bioetica laica or ora presentate, mi permetto di osservare soltanto che il rifiuto di un concetto fondamentale di “natura umana” – rifiuto implicito nell’asserzione che un’etica universale non possa esistere – rende poi a mio modo di vedere arbitrario segnare un discrimine tra umano e non umano e tra fisiologia e patologia: se non è dato sapere che cosa sia una vita umana, come si può stabilire poi che cosa sia una persona, e inoltre in quali casi questa non si possa più considerare tale in ragione di eventi successivi e accidentali? E ciò a tacer del fatto che resterebbe ancora da chiedersi se sia lecito individuare alcunché di “patologico” o “inumano”, ad esempio, nell’ineluttabile disfacimento della vita che osserviamo… in rerum natura.  
    Passando all’impostazione personalista, si deve sottolineare che questa muove dall’assunto che la  bioetica altro non sia che una parte dell’etica: l’uomo, in quanto essere libero e intelligente, dovrebbe sempre rispondere di fronte al “tribunale della propria coscienza” del contenuto morale del proprio agire; di conseguenza ogni atto compiuto con piena avvertenza e deliberato consenso risulterebbe per ciò solo soggetto alle leggi morali. La difficoltà sta, semmai, nell’individuare quali siano queste regole morali che s’impongono all’essere umano, sia come singolo, sia all’interno di una cultura che, pur essendo di fatto relativista, non necessariamente lo rimarrà in eterno. Come si avverte immediatamente, si tratta qui di un’impostazione pienamente compatibile con la fede cristiana, ma l’orizzonte morale di riferimento non è preso in considerazione dai personalisti da un punto di vista meramente teologico: essi affermano, all’opposto, che per fondare i diritti inalienabili della persona umana sia sufficiente riconoscerne filosoficamente la dignità in senso forte. Il valore cui essi fanno riferimento è la dignità ontologica della persona umana, la quale verrebbe in rilievo per ciò che l’uomo è, e non per ciò che fa o che può fare. In quest’ottica ogni persona andrebbe quindi rispettata in modo assoluto, a prescindere dal suo stadio di sviluppo e dalla “qualità” della sua vita fisica.
    Questo secondo approccio ai problemi della bioetica corre il rischio di risultare un po’ apodittico nell’affermare la generale vigenza di un codice morale unitario, in grado di disciplinare ogni azione umana, e può risultare conseguentemente persino dogmatico nell’esposizione delle specifiche leggi etiche che andrebbero osservate nel campo della vita. Esso conserva ciononostante il pregio indiscutibile di ribadire decisamente l’esistenza di un confine invalicabile al di là del quale i segreti della vita non sono passibili di alcuna manipolazione da parte dell’uomo, così non potendo neanche essere ridefiniti per via procedurale da una volontà comune, benché in ipotesi persino unanime, tesa a reinterpretarli onde sconvolgerli, per così dire, politicamente.
    Lungi da me, in conclusione, prendere le parti dell’una o dell’altra impostazione. Credo che entrambe suggeriscano qualcosa: la prima essenzialmente la necessità di una  lunga gestazione sociale e culturale, benché forse un po’ relativista nell’ispirazione, di ogni decisione che rivesta una certa rilevanza in campo bioetico. Alcuni infatti sostengono che un sentimento di onnipotenza abbia obnubilato le menti degli attuali studiosi di genetica e biologia, inducendoli ad un riduzionismo in tutto simile al meccanicismo che i fisici post-newtoniani pretesero, sulle ali di un’assai simile spavalderia scientista, d’imporre all’uomo, finendo per considerare l’organismo umano alla stregua di una macchina regolata dalle leggi della fisica. Ebbene, a questi biologi e genetisti la bioetica positivista sembra rivolgere, non senza fondamento, gli stessi graffianti ammonimenti che Friedrich Dürenmatt rivolgeva ai fisici del suo tempo: ”Il contenuto della fisica riguarda solo i fisici, i suoi effetti riguardano tutti. Ciò che riguarda tutti può essere risolto soltanto da tutti”. Questo mi sembra in sostanza il contenuto della teorica proceduralista che ispira la metodologia proposta dalla bioetica positivista.  
    La bioetica personalista, dal canto suo, mi pare possa contribuire ad un necessario approfondimento della discussione sullo statuto della bioetica nella misura in cui suggerisce ai diversi studiosi coinvolti, non già delle soluzioni belle e pronte, quanto piuttosto una prospettiva alternativa nell'af­frontare le diverse questioni. Essa consiglia, in ultima analisi, di diffidare da quelle risposte che, carenti di un’adeguata valutazione della complessità dei temi della bioetica e prive di una doverosa ricerca sul senso dell'essere e della persona, tendano a saltare precipitosamente a conclusioni normative, le quali pagheranno così inevitabilmente lo scotto dell’oblio della differenza tra mistero e problema.
    Sarà emersa da queste poche righe l’attuale impossibilità di presentare una definizione organica e coerente di bioetica, specie a fronte delle numerose correnti che in qualche modo ne propongono le più diverse enunciazioni. Alla domanda “che cos’è la bioetica” non ci resta che rispondere, non senza un velo di mal celata ironia, con le parole di Eugenio Montale: “Non chiederci la parola”; ci potrebbe capitare di stupirci della rinnovata serietà con la quale saremmo allora costretti ad accogliere gli ultimi due versi della stessa poesia, calzanti e suggestivi più di ogni altra elucubrazione rispetto ai dubbi della bioetica: “[…] Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.

"A che tante facelle?": riflessioni sull'anno internazionale dell'Astronomia

Pubblicato su "Il Consulente Re" on-line, Novembre 2009

Nel 1609, a Padova, Galileo Galilei per la prima volta puntava al cielo il suo cannocchiale, dando inizio all’avventura dell’astronomia moderna e additando, in qualche modo, un nuovo orizzonte per le scienze sperimentali. Quattrocento anni dopo, significativamente, si celebra l’Anno Internazionale dell’Astronomia (IYA2009), iniziativa approvata dall’ONU e promossa in più di 100 Paesi, sotto l’alto patronato dell’UNESCO in collaborazione con l’Unione Astronomica Internazionale (IAU).
    Già da un primo sguardo alla dichiarazione d’intenti diffusa da UNESCO e IAU risultano chiarissimi gli scopi del progetto: “Attraverso l'osservazione del cielo, si invitano i cittadini di tutto il mondo, e soprattutto i giovani, a riscoprire il proprio posto nell'Universo, il senso profondo dello stupore e della scoperta, le ricadute e l'importanza della scienza sulla vita quotidiana e sugli equilibri globali della società”.
    Numerosissimi gli eventi attraverso i quali l’Anno Internazionale dell’Astronomia viene celebrato in Italia: dall’organizzazione di convegni presso le principali sedi universitarie alla programmazione di campagne informative presso le scuole, dalla convocazione di tavole rotonde animate dai più affermati studiosi del settore presso le più belle piazze italiane, fino alla possibilità offerta al pubblico di cimentarsi nell’osservazione del cielo durante una delle tante “Notti Galileiane”, che  si sono svolte nel corso dell’estate. Ma l’appuntamento forse più rilevante è rappresentato dalla mostra ASTRUM2009, organizzata dall’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica) in collaborazione con la Specola Vaticana: si tratta di un’esposizione degli strumenti storici dell’astronomia italiana, tra i quali il telescopio originale di Galileo, visitabile dal 15 ottobre 2009 al 16 gennaio 2010 nell’area espositiva predisposta presso la Sala polifunzionale dei Musei Vaticani.
    Una simile sinergia tra l’INAF e la Specola Vaticana potrebbe risultare sorprendente agli occhi del grande pubblico, abituato più alle continue rievocazioni del celebrato “scontro” tra Galileo e la Chiesa che non ad un’immagine della Sede Pontificia come centro propulsore di un impegno plurisecolare  nello studio del cielo. E invece la Specola Vaticana è un istituto di ricerca scientifica direttamente dipendente dalla Santa Sede, ed è considerata uno degli istituti astronomici più antichi al mondo, risalendo la sua fondazione al 1578, anno di edificazione, per volontà di Papa Gregorio XIII, della Torre dei Venti, osservatorio affidato ai Gesuiti del Collegio Romano.
    In realtà la Chiesa si è resa nei secoli protagonista della fondazione e dello sviluppo dei principali centri di ricerca astronomica di tutta Italia, e ciò non solo dal punto di vista dell’apporto scientifico, ma anche sul piano del contributo finanziario. Basti rammentare il caso dell’antica Specola Universitaria di Bologna, finanziata dalla Santa Sede già ai tempi di Papa Clemente XI, o l’esempio dell’Osservatorio di Brera, a Milano, affidato ai Gesuiti sin dal 1760. Nel meridione, l’Osservatorio di Palermo risulta diretto nei suoi primi anni di vita da Giuseppe Piazzi, un religioso poi richiamato anche a Napoli per sovrintendere alla costruzione dell’Osservatorio di Capodimonte. A Padova l’Osservatorio prese vita ancora grazie all’apporto del seminario, mentre Giovanni Battista Beccaria, dei Padri Scolopi, è considerato il fondatore della prima Specola di Torino, poi affidata ad un Oratoriano ai tempi dell’insediamento nell’Osservatorio di Palazzo Madama. A Firenze ritroviamo alla direzione della Specola, nei suoi primi anni di attività, personalità ecclesiastiche come Domenico De Vecchi e Cosimo Del Nacca, pure quest’ultimo allievo dei Padri Scolopi. Infine a Roma la già citata Torre dei Venti è solo la prima delle specole sostenute dalla Chiesa: accanto ad essa si devono menzionare la Torre di Calandrelli e un nuovo Osservatorio costruito sulla cupola della Chiesa di S.Ignazio, nonché l’Osservatorio del Campidoglio fondato da Papa Leone XII. Impossibile, da ultimo, non ricordare Padre Angelo Secchi (18181878), astronomo gesuita, fondatore della spettroscopia astronomica e direttore dell'Osservatorio Vaticano, al quale va il merito di aver ordinato per primo le stelle in classi spettrali: i suoi trattati sono considerati non a caso i capisaldi della fisica e dell’astronomia dell’’800.    
    Un contributo tanto vivace e ininterrotto, da parte della Chiesa, nel campo delle scienze astronomiche, si spiega già con la semplice constatazione della naturale tendenza dell’uomo a pensare al cielo come al luogo della trascendenza divina. Non c’è espressione religiosa dell’antichità, presso qualunque popolo e ad ogni latitudine, che mostri indifferenza verso i fenomeni astronomici direttamente osservabili: si pensi alla collocazione dei monumenti nell’area cultuale di Stonehenge o alla disposizione delle piramidi d’Egitto, o ancora alla posizione delle piramidi gradonate delle popolazioni precolombiane d’America; gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ciò che resta invariabile è la sensibilità manifestata da tutti i popoli, già a livello di religiosità naturale, per i diversi fenomeni celesti: dal moto degli astri e dei pianeti sino agli eventi meteorologici, tutto quel che accade nel cielo è sempre percepito come la più esplicita rivelazione di potenze ignote e ancestrali, talvolta benevole e provvidenti, tal altra catastrofiche e soverchianti.
    Così il corso della vita umana e degli eventi naturali veniva percepito come riflesso degli avvenimenti astronomici: la posizione delle stelle, le fasi lunari o l’inclinazione dei raggi del sole scandivano di volta in volta i ritmi del lavoro agricolo, il tempo della penuria o i giorni dell’abbondanza e quindi della festa. Presso numerose popolazioni non tardarono ad instaurarsi addirittura culti solari e lunari, a conferma della sacralità attribuita ai fenomeni del cielo. Lo stesso Mircea Eliade, nel suo celebre “Trattato di Storia delle Religioni” afferma: “Quel che non ammette alcun dubbio è la quasi-universalità della credenza in un Essere divino celeste creatore dell’Universo e garante della fecondità della terra (grazie alle piogge che versa)”.
    Una certa astrolatria, cioè il culto o l’adorazione verso i pianeti visibili ad occhio nudo e le stelle più luminose, inevitabilmente si diffuse presso la maggior parte dei popoli antichi, quali i Sumeri, gli Assiri, i Babilonesi, gli Egizi ed altri ancora.
    Anche una semplice riflessione sull’uso moderno delle parole – analisi sempre significativa dal punto di vista dello svelamento dei più atavici meccanismi psicologici – ci può restituire ancora oggi la sensazione di una particolare indulgenza metonimica verso l’uso indiscriminato del termine “cielo”: nella maggior parte delle lingue moderne, infatti, lo si usa tanto per denotare puntualmente la volta celeste, con i suoi astri e i suoi pianeti, quanto per rinviare analogicamente alla pura trascendenza del paradiso e dell’ultramondano in genere. Soltanto la lingua inglese distingue rigorosamente fra “sky” e “heaven”, attribuendo a ciascun vocabolo la dovuta pregnanza semantica.
    Nella tradizione ebraico-cristiana, pur non mancando i riferimenti al cielo inteso ancora nella sua capacità evocativa del divino, i due piani vengono precisamente distinti e tenuti separati, si giunge anzi ad affermare esplicitamente la differenza, anche ontologica, fra cielo inteso come parte del creato, ed oltre-cielo, descritto al contrario come meta astratta delle anime che si salveranno e dimora di Dio Creatore.
    Mentre da una parte anche nel Nuovo Testamento la nascita di Gesù s’inserisce, dal punto di vista genealogico ed anche astronomico, nel solco della tradizione ebraica – tanto che i Re Magi potranno giungere dinanzi al Figlio di Dio seguendo la scia della stella cometa (cfr. Mt 2, 1-12) e Zaccaria potrà affermare: “Verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge” (Lc 1,78) – dall’altra, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, è risolutamente affermata la signoria di Dio su ogni fenomeno naturale, compresi quelli astronomici; addirittura Gesù esplicitamente dichiara: “I cieli e la terra passeranno ma le mie parole non passeranno” (cfr. Mt 5,18; Mc 13,31; Lc 21,33). E l’indicazione evangelica risulta sufficientemente perspicua da essere recepita in tutta la sua profondità metafisica dallo sguardo acutissimo di San Tommaso d’Aquino, che nella Summa Theologiae asserisce: “Il trono di Dio si dice che è in cielo, non perché questo lo contiene, ma perché ne è contenuto” (S.T. III, q.57, a.4, ad primum).
    La fede nella sovranità del Signore sul cosmo e la consapevolezza della condivisione da parte dell’uomo dello stesso Logos di Dio, che trova il suo sigillo nell’annuncio della filiazione divina dell’umanità, consente al cristiano un approccio del tutto nuovo non solo ai misteri del cielo, ma a tutti gli eventi naturali. Per questo, sul piano scientifico e culturale, la civiltà cristiana ha rappresentato e rappresenta, al contrario di quel che a volte capita di ascoltare, un habitat privilegiato per lo stimolo e lo sviluppo della ricerca scientifica in senso lato; non a caso gli stessi studi teologici hanno conosciuto con l’avvento del cristianesimo un approfondimento, e per così dire una spregiudicatezza, del tutto estranei alle altre tradizioni religiose.
    Nel corso della storia cristiana le finestre, le lunette e gli oculi degli eremi celtici, orientati in base alla posizione del sole, continueranno a scandire le ore della preghiera; così come coloratissimi rosoni proietteranno sempre sui pavimenti delle cattedrali gotiche la luce meridiana, indicando i giorni e i mesi dell’anno, o illuminando le immagini dei santi impresse sulle pareti in corrispondenza del ricorrere delle principali feste liturgiche: senza alcuna eccezione i luoghi sacri del cristianesimo manterranno la tradizione antica di concepire il tempio come simbolo e rappresentazione del cosmo; eppure tutto ciò non produrrà mai il rischio di uno scivolamento verso sorpassate forme di astralismo, poiché Dio è “Signore del cielo e della terra” (cfr. Mt 11,25).
    Alla luce, è il caso di dirlo, di quanto esposto, si spiega pure il favore della Chiesa per l’astronomia nella sua specificità: essa infatti, nel ciclico ripetersi degli eventi celesti, fornisce un primo indispensabile strumento di predicibilità dei fenomeni, l’opposto del caos, e quindi fondamento della scienza sperimentale; inoltre consegna alla filosofia i principali elementi di riflessione per la formazione delle diverse concezioni dell’universo e del posto che al suo interno è stato riservato all’uomo.
    Con l’Anno Internazionale dell’Astronomia, quindi, la Chiesa può celebrare tra l’altro l’avvenuta riconciliazione, nell’alveo della tradizione cristiana, del conflitto apparente tra scienza e fede: l’inesistenza di una simile opposizione è d’altro canto testimoniata, nella prospettiva di uno scienziato eppure col medesimo risultato, dalle considerazioni di Carl von Weizsäcker, fisico e filosofo tedesco scomparso soltanto due anni fa: “L'esperienza vissuta in una notte come quella non può essere resa a parole [...]. Nella gloria indicibile del cielo stellato era presente in qualche modo Dio. Ma al contempo io sapevo che le stelle non sono altro che sfere di gas, composte di atomi, che soddisfano le leggi della fisica” (Über Religion und Naturwissenschaft, Friburgo 1992, pag. 17).
    Il comune denominatore costituito dallo stupore, motore e molla tanto della ricerca astronomica quanto della contemplazione religiosa del cielo, sembra pertanto rinviare all’idea centrale di una sostanziale unitarietà dell’esperienza estetica, della fatica scientifica e dello slancio religioso. All’interno di una sensibilità umana debitamente educata alla libertà e all’onestà intellettuale non si danno quindi schizofrenie in grado di generare indissolubili conflitti interiori, e così neanche esecrabili scontri ideologici tra opinioni differenti, ma semmai soltanto divergenze passibili di discussione e di conciliazione. Questo rappresenta, in ultima analisi, la collaborazione fra INAF e Specola Vaticana nelle celebrazioni dell’Anno Internazionale dell’Astronomia. Ed è in fondo questo quel che ci suggerisce anche Kant con le indimenticabili parole impresse non a caso sul suo epitaffio: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupi di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”.