"C'è la bellezza e ci sono gli umiliati.
Qualunque difficoltà presenti l'impresa, non vorrei mai essere infedele né ai secondi né alla prima" A.C.

mercoledì 20 aprile 2011

AUGURI ITALIA!

Pubblicato su "Il Consulente Re" on-line di marzo 2011
per il 150° anniversario dell'Unità d'Italia

 
L’ITALIANITA’, TRA SCETTICISMO E INDOLENZA

L’animo italiano non si presta all’adorazione di feticci. Il nostro popolo non si culla di certo tra gli allori di vittorie fittizie imbellettate a guisa di trionfi. La storia ci ha insegnato che le apoteosi nazionaliste non si manifestano quasi mai in epoche beate, contrassegnate da un’estesa fruizione di benessere, libertà e democrazia; abbiamo piuttosto imparato a guardare con sospetto alle tentazioni autocelebrative, a considerare le feste nazionali come canonizzazioni della ragione dei vincitori a danno, se non a beffa, degli interessi dei vinti. Forse i motivi di questo sospetto, di questa diffidenza, risiedono proprio nelle nostre origini, perché a nessuno sfugge che ad un certo pragmatismo – che pure non ci manca – si mescola, nella nostra natura, una sorta di disincanto di fondo, di stampo spiccatamente scettico, che sembra esserci stato consegnato direttamente dai nostri padri greci.
Mi sia concesso un esempio un po’ banale, che però rivela ben più di quanto non manifesti a prima vista: quando nel 2006 vincemmo i mondiali di calcio, l’euforia per il trionfo iridato durò giusto lo spazio di una notte, mentre già all’indomani del grande successo di Berlino fiorirono le polemiche e le dietrologie sulle “reali” dinamiche della vittoria italiana. 
Si disse che la fortuna ci aveva aiutato ben al di là delle speranze più ottimistiche, si fece rilevare che eravamo stati favoriti dal tabellone, che avevamo superato gli ottavi di finale contro l’Australia grazie ad un rigore dubbio, concesso generosamente dall’arbitro in “zona Cesarini”. Poi le analisi critiche si radicalizzarono, secondo quell’andamento iperbolico che conduce spesso i commenti sportivi ad assumere, un po’ goffamente, le sembianze gravi di speculazioni politico-filosofiche: e si disse che in fondo ci eravamo soltanto difesi per un intero mondiale, “all’italiana”, che avevamo davvero giocato soltanto gli scampoli di una sola partita – i tempi supplementari della semifinale contro la Germania – finendo per vincere più per consunzione che non per reali meriti o per determinazione espressa in campo. Infine la vittoria contro la Francia ai rigori, con le consuete ombre che questo metodo di attribuzione del bottino finale lascia sempre nell’animo dei puristi, o dei maliziosi. Alcuni commentatori, infine, increduli della nostra vittoria, si lasciarono andare ad una valutazione globale dal sapore vagamente “esistenzialista”: avevamo vinto in reazione agli scandali giudiziari – la cosiddetta calciopoli – che avevano travolto il mondo del calcio di casa nostra nella stagione precedente all’estate del mondiale; l’animo sornione del calciatore italiano medio, insomma, pungolato nell’orgoglio dal vocio diffamatorio che dava per morto e sepolto il nostro sport nazionale, avrebbe conosciuto un moto d’orgoglio altrimenti inusitato, capace di condurci, è il caso di dirlo, in capo al mondo. Ancora una volta, quindi, lo stereotipo dell’italiano inetto e indolente, che alza la testa solo in presenza di circostanze straordinarie, altrimenti più incline all’ozio, o per lo meno ad una condotta più fiacca e sparagnina.
Ma se tutto ciò emerge di fronte ad un semplice successo sportivo, che si dirà di quel grande trionfo che fu secondo alcuni – per altri, come è ovvio, giusto l’opposto – la nostra storia risorgimentale? Bravi come siamo a piangerci addosso quando tutto va male, e abili, come visto, a dividerci quando vinciamo, in che modo abbiamo metabolizzato le vicende di quella grande affermazione, per lo meno identitaria, rappresentata dalla storia della nostra unificazione nazionale? Al riguardo, i battibecchi degli ultimi tempi circa l’opportunità di festeggiare il giorno del centocinquantesimo dell’unità d’Italia parlano da soli. 
Ma come mai tanto accanimento, e da più parti, nell’osteggiare le celebrazioni?

 IL REVISIONISMO E IL SUO STRUMENTALE UTILIZZO POLITICO

Il revisionismo sul Risorgimento italiano ha una storia lunga e “gloriosa”, almeno altrettanto lunga e “gloriosa” quanto quella che ci separa dagli eventi risorgimentali. L'approccio revisionista riposa sull'assunto che la storiografia non consideri correttamente le ragioni dei vinti, omettendo alcuni aspetti degli accadimenti storici. Si tratta, come si vede, di un punto di vista pernicioso, che rischia di allignare sin troppo bene nell’animo di chi, già per natura, si mostra incline alla divisione, alla diatriba, allo spaccare il capello in quattro pur di non lasciarsi andare – e nemmeno per un giorno in 150 anni – a quella parzialità necessariamente un po’ ingenua, eppure tanto benefica, di cui si alimenta per forza di cose ogni sano patriottismo.                     
I revisionisti di ogni epoca tendono a valutare in modo negativo, rispetto alla storiografia prevalente, personaggi-chiave dell'unità nazionale italiana, quali Camillo Benso di Cavour, Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II di Savoia. Alcuni di essi, innestandosi nel dibattito sulle cause della cosiddetta questione meridionale, sostengono che il Risorgimento sarebbe stato una vera e propria opera di colonizzazione, seguita da una politica di conquista centralizzatrice – la famosa “piemontesizzazione” – a causa della quale il Mezzogiorno italiano sarebbe caduto in uno stato d'arretratezza tuttora evidente. Altri, invece, cavalcano ancora la cosiddetta questione romana, ed enfatizzano i profili critici dei noti avvenimenti del 1870, sottolineando l’illiceità giuridica dell’invasione di uno Stato Sovrano e la riprovevolezza etica dell’aggressione alle prerogative pontificie.   
Le idee revisioniste iniziarono a diffondersi già negli anni immediatamente successivi agli eventi che condussero il Regno di Sardegna a trasformarsi in Regno d'Italia, ancor prima della nascita di un vero e proprio dibattito storiografico in materia. I primi dubbi sui reali moventi della politica estera di Casa Savoia furono sollevati dallo stesso Giuseppe Mazzini, uno dei principali teorici ed artefici dell'unificazione italiana. Mazzini ipotizzò, sul suo giornale "Italia del Popolo", che il governo di Cavour non fosse affatto interessato all’ideale di un'Italia unita, ma più prosaicamente al disegno politico di  allargare i confini dello stato sabaudo. All’indomani dell’unificazione, Mazzini tornò ad attaccare, a tal proposito, il governo della nuova nazione: « Non c'è chi possa comprendere quanto mi senta infelice quando vedo aumentare di anno in anno, sotto un governo materialista e immorale, la corruzione, lo scetticismo sui vantaggi dell'Unità, il dissesto finanziario; e svanire tutto l'avvenire dell'Italia, tutta l'Italia ideale ». 
Il revisionismo sul  risorgimento conobbe un'evidente radicalizzazione a metà del Novecento, dopo la caduta sia della monarchia sabauda che del fascismo, dai quali l’epopea unitaria era considerata un mito intangibile. A tutela di questo mito, ogni volta che un’alta personalità politica moriva, si procedeva ad un attento esame delle sue carte e della corrispondenza privata con il re, in modo da eliminare, e segretare nella Biblioteca Reale, qualunque documento compromettente. Secondo questo metodo, la corrispondenza di Cavour fu massicciamente emendata dalla feroce ostilità nei confronti di Garibaldi e dei democratici, nonché dalle frasi profondamente offensive nei confronti degli italiani. Del resto non è più un mistero per nessuno che Cavour fosse uomo politico accorto e lungimirante, di strettissima osservanza sabauda, ma di sentimenti essenzialmente anticattolici e di gusto aristocratico e filo-francese, di certo non un patriota italiano, né un accorato osservatore dei problemi del nostro meridione. 
E tuttavia non si capisce perché si pretenda di rinvenire la controversa virtù del patriottismo nell’animo di una classe di governanti che si trovò, all’epoca, a capo di una popolazione informe e variegata, contraddistinta dai più microscopici particolarismi, animata da interessi campanilistici, e che si risvegliò da un giorno all’altro riunita sotto il vessillo oscuro di una nazione della quale solo il 2,5% dei nuovi “italiani” parlava la lingua ufficiale, la nostra lingua; mentre Cavour, ovviamente, parlava in francese.
Non si capisce proprio perché mai la limitata convinzione patriottica di chi a suo tempo pose le prime pietre di una nuova nazione, dovrebbe giustificare, oggi, il nostro scarso trasporto nel celebrare la fondazione della casa comune nella quale siamo nati e viviamo: singolare senso della storia quello per cui il senno di poi finisce per legittimare e riproporre, anziché correggere, qualche miopia degli avi.
Tanto più che, a dirla tutta, non furono all’epoca affatto convinti della trovata unitaria nemmeno i nuovi italiani. L’avanzata dell’esercito sabaudo procedé in più parti d’“Italia” tra resistenze strenue da parte delle popolazioni locali – e non mancarono stragi ed eccidi per persuadere i resistenti sulle buone ragioni del nuovo nazionalismo – mentre i famosi plebisciti, attraverso cui si ottenne il consenso degli occupati circa il nuovo regime politico instaurato da quelli che erano considerati semplici invasori, non rappresentarono certo un’adesione di massa al nuovo stato di cose, tanto che ne scaturirono – ad onta del prestato consenso – fenomeni di eversione ben radicati e longevi, quali il brigantaggio e alcune forme di criminalità organizzata.
Massimo D'Azeglio
Ecco come si espresse su quei plebisciti Massimo D’Azeglio, Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna: « A Napoli, noi abbiamo altresì cacciato il sovrano per stabilire un governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono, e sembra che ciò non basti per contenere il Regno, sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti o non briganti, niuno vuol saperne. Ma si dirà: e il suffragio universale? Io non so nulla di suffragio, ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni e che al di là sono necessari. Dunque vi fu qualche errore e bisogna cambiare atti e principi. Bisogna sapere dai Napoletani un'altra volta per tutto se ci vogliono, sì o no. Capisco che gli italiani hanno il diritto di fare la guerra a coloro che volessero mantenere i tedeschi in Italia, ma agli italiani che, restando italiani, non volessero unirsi a noi, credo che non abbiamo il diritto di dare archibugiate, salvo si concedesse ora, per tagliare corto, che noi adottiamo il principio nel cui nome Bomba (Ferdinando) bombardava Palermo, Messina, ecc. Credo bene che in generale non si pensa in questo modo, ma siccome io non intendo rinunciare al diritto di ragionare, dico ciò che penso».
Il Meridione, in genere, non fu trattato con gran riguardo dai nuovi governanti sabaudi: il fenomeno del brigantaggio conobbe una repressione ferocissima, tanto che persino Nino Bixio, uno dei comandanti della spedizione dei Mille e protagonista del discusso episodio della strage di Bronte, denunciò questi metodi in un discorso alla camera il 28 Aprile 1863: « Si è inaugurato nel Mezzogiorno d'Italia un sistema di sangue. E il Governo, cominciando da Ricasoli e venendo sino al ministero Rattazzi, ha sempre lasciato esercitare questo sistema ». I meridionali non furono neppure accolti a braccia aperte nel nuovo parlamento nazionale; ecco che cosa scrive Cavour, in una lettera del dicembre 1860, raccomandando al ministro di grazia e giustizia Giovanni Battista Cassinis di  adoperarsi affinché il numero di napoletani in parlamento fosse il più esiguo possibile: « Mi restringo a pregarlo a fare ogni sforzo onde si acceleri la formazione delle circoscrizioni elettorali, vedendo modo di darci il minor numero di deputati napoletani possibile. Non conviene nasconderci che avremo nel Parlamento a lottare contro un'opposizione formidabile ».

LE RAGIONI DI UNA FESTA

La storia dell’unificazione italiana, insomma, ben lungi dall’apparire un glorioso cammino di riunione fraterna all’interno di un orizzonte di valori e aspirazioni condivise, si rivela essere piuttosto l’esito di un pragmatico disegno di liberazione del nostro territorio nazionale dall’oppressione straniera. Forse si può affermare che, salvo rare eccezioni, nessuno al tempo dell’unità gradisse la soggezione all’Austria o le ingerenze francesi, ma allo stesso tempo in pochissimi auspicavano che la liberazione corrispondesse ad una nuova subalternità al regno sabaudo. Ma stupirsi di una simile difficoltà, dar troppo peso a questa ritrosia da parte delle popolazioni in qualche modo liberate, significa non comprendere le difficoltà che può incontrare un popolo a farsi nazione.
La riottosità di molti uomini dell’epoca risorgimentale ad abbracciare il nuovo progetto di un’Italia libera e unita, tra l’altro, non è di certo argomento che militi a favore delle ragioni di quanti, oggi, sembrano voler mettere in discussione il fondamento politico, sociologico ed ideale di una grande nazione che compie 150 anni.        
Le tesi sulle quali si fondano  le teorie revisioniste appaiono tutte fondate sulla sola constatazione dell’arretratezza economica del sud rispetto al nord, il che, evidentemente, non solo non prova nulla, ma oltretutto svilisce il dibattito sulle ragioni ideali della spinta unitaria, precipitando ogni valutazione politica al livello un po’ triviale della considerazione materiale e del calcolo economico.
La spinta all’unificazione del nostro Paese ha conosciuto un respiro ben più ampio nel petto di coloro che si fecero davvero ideatori e maestri dell’Italia unita. L’orizzonte angusto di quanti oggi pretendono di utilizzare la questione meridionale come emblema di uno scandalo e grimaldello per un’eventuale scissione, non è degno dell’eroismo e della lungimiranza di quanti l’Italia l’hanno fatta o conservata a prezzo del proprio sangue. La miopia di chi strumentalizza una nazione – quand’anche questa fosse ancora soltanto un ideale – per fini politici vili e caduchi, andrebbe quanto meno bollata col marchio infamante del cinismo, cioè del vizio mentale di chi, come suggerisce Oscar Wilde, considera di ogni bene anzitutto il prezzo, e solo secondariamente il valore.
Coloro che invece considerano l’Italia un grande valore, festeggiano oggi i 150 anni della sua unificazione; costoro conoscono bene, dell’Italia, i limiti – anche storici – e ne comprendono le criticità – che spesso di quella storia costituiscono l’inevitabile retaggio – ma affermano di volersi spendere per colmare lo iato tra la realtà e il loro ideale. A quanti invece pretendono che non si festeggi, o che si festeggi in sordina, in ragione del predicato fallimento di quell’idea, infrantasi sul muro robusto della realtà dei fatti, dei dati economici, dei problemi sociali, a costoro diremo che la speranza è degna di una celebrazione più solenne di qualsiasi realtà, perché il valore dell’Italia Unita non merita di pagare il fio delle nostre inadeguatezze.
                                                                                                                 Marco Giorgetti 

martedì 29 marzo 2011

Governativi in ritirata si mescolano alla popolazione civile: presto impossibili i raid dal cielo. Si spera nel tradimento dei Warfalla

Non siamo ancora a Sirte, come qualcuno aveva annunciato ottimisticamente nella mattinata di ieri. Gli shabab, i ragazzi delle bande ribelli, hanno incalzato i governativi sino ad Al Assun. I resistenti mantengono la posizione finché possono, tanto più che i ribelli non cercano mai lo scontro armato; ma poi arrivano dal cielo i raid degli alleati francesi e inglesi, e allora i Warfalla, sfiancati e ormai privi di mezzi blindati, ripiegano alla chetichella in direzione del centro abitato più vicino, nel quale tornare ad asserragliarsi.
Siamo arrivati così a 80 kilometri da Sirte, città simbolo del potere di Gheddafi, che è nato in quella provincia, nella quale risiede la sua tribù. La presa di Sirte sarebbe quindi un gran colpo per i ribelli, soprattutto sul piano simbolico, ma per ora gli shabab sembrano insabbiati qui ad Al Assun, e l’immagine di una tonnara che si vada stringendo intorno ai governativi sarebbe davvero fuorviante.
 
Più ci si avvicina a Sirte, infatti, più le forze governative in ritirata si mescolano alla popolazione civile, il che renderà sempre più difficili, se non proprio inattuabili, le incursioni alleate dal cielo. Insomma, la rete dei ribelli avanza, e la sua bocca si stringe serrando la linea dei governativi in file sempre più fiacche e disarmate, ma man mano che retrocede il banco dei Warfalla inghiotte, inglobandole, miriadi di case abitate da civili inermi. Facile immaginare che giunti a Tripoli i governativi si barricheranno ovunque, neutralizzando il vantaggio militare degli insorti, costituito sin ora dal supporto delle forze aeree alleate.
La situazione minaccia di volgere allo stallo, e se qualcuno in Europa spera nel buon esito degli sforzi diplomatici nei confronti del rais, in Libia si punta sulla diserzione delle tribù adesso alleate di Gheddafi. La radio della Libia libera, infatti, lancia appelli ai Warfalla, i resistenti della più importante tribù del paese, che non è sempre stata amica del rais, e dal quale ha subito spesso ingiustizie.
   La redazione di "Radio Free Lybia"

Si auspica che il ricordo di queste prepotenze riaffiori, consigliando ai governativi di arrendersi e abbandonare Gheddafi al suo destino, che sembra ormai già scritto. Si spera insomma nella congiura di palazzo: accelererebbe la fine della guerra e risparmierebbe molte vite umane.





mercoledì 23 marzo 2011

Immigrati e fatica di regolarizzarsi

Pubblicato su "Il Consulente Re" on-line di Febbraio 2011   


Diceva Henry Ford che “c’è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti”. Se ciò è vero, l’informatizzazione della procedura di regolarizzazione dei  lavoratori extracomunitari immigrati in Italia non rappresenta ancora un esempio di progresso compiuto.   
Il 31 gennaio e il 2 e 3 febbraio scorsi, si sono svolti i cosiddetti click day, le giornate in cui – in ossequio alle previsioni dell’ultimo Decreto flussi approvato dal Consiglio dei Ministri – i cittadini extracomunitari che hanno trovato lavoro nel nostro Paese potevano inviare, per via telematica agli uffici del Viminale, le richieste per regolarizzare la propria permanenza in Italia.
In sostanza, collegandosi al sito del Ministero dell’Interno, i datori di lavoro hanno avuto la possibilità di seguire una procedura guidata finalizzata alla messa in regola dei propri dipendenti stranieri. Il click day non è che la versione computerizzata delle estenuanti nottate che sino al 2006 i lavoratori immigrati hanno trascorso in fila davanti ai nostri uffici postali; prima, infatti, la procedura di regolarizzazione imponeva l’invio in forma cartacea, tramite posta ordinaria, della documentazione che oggi può viaggiare sul web. Vantaggio non da poco, si dirà, tuttavia la dematerializzazione di un problema – e persino di un dramma personale – non basta a risolverlo. I numeri del click day descrivono una situazione tragica, uno stato di fatto a dir poco allarmante, la cui criticità affiora solo episodicamente. In queste giornate ci si ricorda di un’ingiustizia pressoché insanabile, che emerge non appena si compia lo sforzo di combatterla: una fatica abbastanza frustrante.

300 mila domande in 4 ore, le prime 100 mila in un minuto. E le “quote” erano solo 52.080
Sono circa 300 mila le domande arrivate al Viminale entro mezzogiorno del 31 gennaio per il primo click day, riservato a 52.080 lavoratori provenienti da Paesi che hanno sottoscritto con l’Italia accordi di cooperazione. Nei primi secondi, dopo il via libera delle 8, sono state ricevute oltre 100 mila domande. La velocità si rivelerà fondamentale, perché le graduatorie seguiranno l’ordine cronologico di ricezione delle richieste, e vista la sproporzione tra “quote” disponibili ed istanze inoltrate, potrà essere regolarizzato soltanto un lavoratore su sei.
Il 2 e 3 febbraio la stessa situazione si è riproposta per le rimanenti “quote” – circa 46 mila – riservate a colf e badanti provenienti da nazioni che non hanno sottoscritto accordi di cooperazione con il nostro Paese (30 mila), e infine alla conversione di permessi provvisori per studio e lavoro stagionale.  

L’invio delle domande on-line si rivela una forma di discriminazione
La nota dolente di questo meccanismo di regolarizzazione non consiste soltanto nella casualità del metodo di selezione delle domande, fondato sul mero criterio cronologico, ma soprattutto nella sperequazione che importa a danno di coloro che non sanno o non possono usufruire della necessaria strumentazione informatica. Non a caso nella gara di velocità hanno trionfato coloro che si sono potuti avvalere dell’aiuto dei propri datori di lavoro – peraltro spesso organizzati in patronati e associazioni – o che si sono rivolti ad appositi consulenti. Per tutti gli altri la minima incertezza nel riempire i complicati moduli on-line, un’interruzione nella connessione alla rete, o più spesso le difficoltà nel collegarsi al portale del Ministero a causa dell’inevitabile sovraffollamento, comporteranno l’impossibilità di continuare a lavorare nel nostro Paese, oppure il mancato ricongiungimento con un proprio familiare, o ancora, forse più spesso, il prolungamento di un periodo di vita incerta e clandestina.

Criticità di fondo delle nostre politiche sull’immigrazione
Si potrà anche eccepire che in definitiva, essendo limitata la capacità dell’Italia di ricevere lavoratoti extracomunitari – in particolar modo in questo periodo, a causa della crisi economica – una severa selezione si rivela tanto dolorosa quanto necessaria. Ma quest’argomento non basta a giustificare i vizi di fondo della nostra politica sull’immigrazione: in primo luogo in Italia un Decreto flussi si faceva attendere dal 2007, con l’inevitabile boom di immigrati in attesa di regolarizzazione; inoltre la decisione di non individuare criteri di selezione dei lavoratori da regolarizzare, rimettendo la scelta alla casualità del sistema informatico, è apparsa a molti soluzione improvvida, giudicata tra l’altro una forma di abdicazione della politica dal suo ruolo, foriera d’inevitabili conseguenze negative, in termini di ingiustizia e di accrescimento delle disuguaglianze, all’interno di una categoria sociale, quella degli immigrati, già vessata da avversità intrinseche alla propria condizione giuridica.

“Flussi” invertiti: la regolarizzazione di lavoratori già clandestinamente presenti in Italia
In quest’ottica si disvela per di più un’ipocrisia latente, che si cela già nel nome attribuito al provvedimento di pianificazione delle regolarizzazioni. L’espressione “Decreto flussi” rinvia infatti all’idea di una moltitudine di extracomunitari in movimento, che come la corrente di un fiume che si getti in mare, verrebbero accolti nel nostro Paese dopo aver ottenuto, a distanza, un contratto di lavoro in territorio italiano. Ben più statica si rivela la realtà dei fatti: il Decreto flussi, come tutti sanno, non fa che regolarizzare la situazione lavorativa di immigrati clandestini già presenti e impiegati in Italia.
Ma ciò non basta. Le peripezie che attendono quanti riceveranno l’OK sull’istanza inviata al Ministero dell’Interno finiranno, quasi beffardamente, per capovolgere il significato dell’espressione “Decreto flussi”. In realtà il primo “moto” prodotto dal Decreto procederà proprio dal nostro Paese in direzione delle nazioni extracomunitarie. I lavoratori ammessi alla procedura di regolarizzazione saranno infatti costretti ad uscire dall’Italia, con un nulla osta, per recarsi nel proprio Paese d’origine; laggiù dovranno ottenere dalle nostre autorità diplomatiche un visto d’ingresso per motivi di lavoro, col quale potranno finalmente rientrare in Italia, onde beneficiare del provvedimento di regolarizzazione; e tutto ciò, naturalmente, a patto che le autorità preposte chiudano un occhio al momento del rilascio del primo nulla osta, necessario all’immigrato per tornare nella propria nazione: in quel momento, infatti, egli dovrà in qualche modo autodenunciarsi come clandestino, e rischierebbe, a rigore, di essere definitivamente segnalato ed espulso.
In definitiva, in virtù del Decreto flussi di quest’anno i più fortunati – uno su sei, è bene ricordarlo, senza conteggiare coloro che non sono riusciti affatto ad inoltrare l’istanza – potranno tra qualche mese imbarcarsi in un’odissea dall’esito incerto, che li condurrà al riconoscimento giuridico di uno stato di fatto che spesso si protrae da anni, tra incertezze, diritti negati e inevitabili sopraffazioni.

Ritardi nelle procedure: ancora in corso le regolarizzazioni del Decreto flussi 2007
Tutto ciò mentre risultano ancora in corso i rilasci di buona parte dei nulla osta richiesti nel 2007, e mentre le prefetture stesse lamentano la difficoltà di evadere il carico di domande relative al Decreto flussi di quattro anni fa.  
La materia dell’immigrazione, nella sua globalità, richiede un organico intervento di riforma. La normativa attualmente vigente non è apprezzata né dai datori di lavoro né dai lavoratori immigrati nel nostro Paese. L’incapacità di gestire la complessità e le dimensioni numeriche del problema alimenta sacche di clandestinità e di emarginazione, all’interno delle quali non solo si moltiplicano le spinte criminogene, ma vengono spesso calpestai i più elementari diritti della persona.     


                                                                                                    Marco Giorgetti

mercoledì 23 febbraio 2011

Un protestante alla guida della Pontificia Accademia delle Scienze

Pubblicato su "Il Consulente Re" on-line di Gennaio 2011


Cronaca di un avvenimento ecumenico
Il biologo svizzero e Premio Nobel per la medicina Werner Arber, professore emerito di microbiologia all’Università di Basilea, sostituisce il fisico italiano Nicola Cabibbo, scomparso di recente, alla guida della Pontificia Accademia delle Scienze. La notizia della nomina da parte di Benedetto XVI è stata diffusa lo scorso 15 gennaio, e non ha mancato di destare sorpresa sia negli osservatori che nell’opinione pubblica: Werner Arber è infatti un protestante riformato, un calvinista. Al di là delle reazioni della prima ora, improntate ad un giustificato stupore, poiché è la prima volta che l’Accademia, nei suoi 400 anni di storia, è presieduta da un non cattolico, questa nomina riveste un’importanza capitale sotto il profilo ecumenico.
Werner Arber
 “La Pontificia Accademia delle Scienze ha lo scopo di onorare la scienza pura ovunque essa si trovi, assicurarne la libertà e favorirne le ricerche”, il merito scientifico è quindi l’unico criterio di selezione dei candidati, e ciò spiega la presenza di numerosi non cattolici tra i membri di quest’organismo; lo stesso Arber, del resto, fu nominato Accademico Pontificio già nel 1981 ed è Consigliere dell’Accademia dal 1995; ma ciò non ridimensiona di certo, almeno sul piano simbolico, il valore ecumenico della scelta di affidare ad un protestante la presidenza dell’Accademia. Per chiarire meglio l’importanza di questa nomina può essere utile sottolineare che l’Accademia ha avuto sino ad oggi solo sei presidenti – Arber sarà il settimo – e i primi due furono campioni del cattolicesimo romano del calibro di Padre Agostino Gemelli e Monsignor Lemaitre. 
Ma la scienza è terreno fertile per il dialogo ecumenico, luogo privilegiato per l’apertura a differenti impostazioni ideologiche, culturali e persino teologiche; perché nella passione per la ricerca e nell’anelito alla verità sostenuto dalla sola forza della ragione, sfumano le differenze e risaltano i valori comuni. Già Papa Giovanni Paolo II, il 10 novembre del 1979, in occasione del centenario della nascita di Albert Einstein, sottolineò in questo senso il ruolo e gli scopi dell'Accademia: "L'esistenza di questa Pontificia Accademia delle Scienze, di cui nella sua più antica ascendenza fu socio Galileo e di cui oggi fanno parte eminenti scienziati, senza alcuna forma di discriminazione etnica o religiosa, è un segno visibile, elevato tra i popoli, dell'armonia profonda che può esistere tra le verità della scienza e le verità della fede”.
Il significato della scelta del Papa non è sfuggito di certo alla Conferenza dei vescovi svizzeri (Cvs), che ha diffuso nei giorni scorsi una nota nella quale «si rallegra» per la nomina di Werner Arber alla presidenza dell’ Accademia, aggiungendo che questo conferimento «non solo onora un benemerito microbiologo svizzero, ma costituisce un indubbio avvenimento ecumenico. Con la nomina di un cristiano di confessione riformata è infatti la prima volta che l'Accademia viene a esser presieduta da un non cattolico». Né va sottovalutata la circostanza che Abner sia un medico, giacché con la sua nomina a capo dell’Accademia delle Scienze il Papa mostra di confidare in una sponda nel mondo protestante sui temi caldi della bioetica. 
Del resto sono recentissime anche altre notizie riguardanti nuove determinazioni di Benedetto XVI in campo ecumenico: a Capodanno il Papa ha annunciato la convocazione di una quarta giornata interreligiosa ad Assisi, in programma per il prossimo ottobre; mentre il 15 gennaio ha istituito un “ordinariato” destinato ad accogliere gli anglicani che entreranno nella Chiesa cattolica, ponendo a capo di esso - e quindi in posizione assimilabile a quella di un vescovo - un sacerdote sposato.

Profili biografici del Prof. Werner Arber
Tornando ad Arber, è doveroso fornirne almeno alcuni cenni biografici: egli è nato in Svizzera, a Gränichen, il 3 giugno del 1929. Docente di genetica molecolare dal 1959 al 1970 all’Università di Ginevra, nel 1971 si trasferì per insegnare microbiologia all’Università di Basilea. Ha fondato le sue ricerche sul meccanismo di difesa della cellula batterica nei confronti dei virus, ricevendo per le sue scoperte, che costituiscono attualmente la base dell’ingegneria genetica e della biologia molecolare, il Premio Nobel per la medicina nel 1978. Ha ricoperto diverse cariche in Organismi scientifici di livello internazionale, tra la quali quella di Presidente dell’ICSU (International Council for Science).  

Cenni su storia e struttura dell’Accademia
Altri trentasei premi Nobel siedono attualmente assieme al Prof. Arber nella Pontificia Accademia delle Scienze; ma per saggiare la rilevanza di quest’istituzione nel panorama scientifico internazionale, vale la pena citare alcuni Nobel che ne hanno fatto parte nel corso della sua storia, come Marconi, Planck, Heisenberg, Fleming, Eccles, Baltimore, Rubbia, Levi-Montalcini, Polanyi, Murray e Molina; sono solo alcuni dei più grandi scienziati degli ultimi secoli che hanno trovato posto nell’Accademia delle Scienze, ma la circostanza che siano noti anche ai non addetti ai lavori, come personaggi simbolo del mondo scientifico, sta a dimostrare l’infondatezza dell’opinione secondo cui la Chiesa sarebbe stata nel corso dell’epoca moderna indifferente o persino avversa alla questione del progresso scientifico.
L’Accademia venne fondata a Roma nel 1603 da Federico Cesi, Giovanni Heck, Francesco Stellati e Anastasio De Filiis. Fu originariamente denominata “Accademia dei Lincei”, successivamente “Pontificia Accademia dei Nuovi Lincei” ed il 28 ottobre del 1936 il Sommo Pontefice Pio XI le concesse nuovi Statuti e la ricostituì con il nome odierno. Un nuovo Statuto venne approvato da Paolo VI in data più recente, il 1° aprile 1976. Il corpo accademico comprende ottanta Accademici di nomina pontificia, scelti fra i più noti scienziati di tutto il mondo, oltre ad Accademici perdurante munere, in ragione del loro ufficio, e Accademici Onorari, in ragione delle loro benemerenze verso l’Accademia stessa. E’ un corpo indipendente nell'ambito della Santa Sede e gode della libertà di ricerca. Negli statuti del 1976 si afferma: «La Pontificia Accademia delle Scienze ha come finalità la promozione del progresso delle scienze matematiche, fisiche e naturali e lo studio delle questioni e dei temi epistemologici relativi». Attualmente l'attività dell'Accademia copre sei aree principali: scienza fondamentale, la scienza e la tecnologia richieste da questioni e temi globali, scienza utile per i problemi del Terzo Mondo, etica e politica della scienza, bioetica, epistemologia. E’ nel mondo la sola Accademia delle Scienze a classe unica e a carattere soprannazionale,  ed ha sede nella Casina di Pio IV, nei Giardini Vaticani.
Marco Giorgetti

mercoledì 26 gennaio 2011

Il federalismo che verrà

Pubblicato su "Il Consulente Re" on-line di Dicembre 2010



Il federalismo fiscale non è più una bandiera di propaganda politica, sventolata da una fazione ed osteggiata dall’altra; quasi tutti i partiti si mostrano favorevoli alla ratio che ispira questa riforma “in progress”, secondo la quale, in soldoni, sarebbe auspicabile responsabilizzare gli enti territoriali subordinati allo Stato centrale, e ciò in ossequio ad un previo assunto generalmente condiviso: che soluzioni politiche efficienti possano essere reperite soltanto dagli organismi territoriali prossimi al corpo sociale presso il quale andranno applicate. 
Federalismo fiscale e principio di sussidiarietà
L’idea, insomma, è che l’orecchio della politica si debba avvicinare alla voce di chi la interroga, che le sue parole debbano smettere di echeggiare – spesso incomprensibili – per i palazzi del governo centrale, e debbano farsi carico di suonare amiche all’orecchio del singolo cittadino, là dove egli vive e lavora, possibilmente per risolvergli qualche problema.
Bisogna anche sottolineare che la logica del decentramento degli approvvigionamenti tributari, unitamente alla decentralizzazione delle competenze decisionali inerenti materie tradizionalmente riservate alla potestà normativa dello Stato, cooperano alla creazione di un modello solo fiscalmente federale, in realtà più che mai rispondente alle sollecitazioni suggerite dalla più genuina interpretazione del principio di sussidiarietà. Non a caso questa riforma trova ampio consenso tra le file del mondo cattolico, sempre attento alla difesa e alla riaffermazione del principio di sussidiarietà, la cui formulazione classica, contenuta nell’Enciclica Quadragesimo anno di Pio XI, suona significativamente così: “È vero certamente che [...] molte cose non si possono più compiere se non da grandi associazioni, laddove prima si eseguivano anche dalle piccole. Ma deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofia sociale: che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle”. In sostanza, sia che si tratti di attività riservate al singolo individuo, sia che si abbia riguardo a mansioni assegnate ad organismi sociali, il principio di sussidiarietà tende a preservare la centralità della persona, che non cessa, nell’ambito della comunità, di essere il fine di ogni agire umano, tanto individuale quanto aggregato.  

Devoluzione e federalismo fiscale: un problema di giustizia distributiva   
La tendenza al decentramento si è affermata già a partire dalla riforma costituzionale del  2001, la famosa devolution, con la quale si è capovolto il criterio di riparto delle competenze legislative fra Stato e Regioni: l'articolo 117 della Costituzione prevede ora una lista tassativa di materie soggette alla potestà legislativa statale, affiancata da un elenco, altrettanto cogente, di materie sottoposte alla cosiddetta legislazione concorrente, per le quali cioè la potestà legislativa spetta sempre alle regioni, ma nel quadro di princìpi fondamentali posti dalla legge statale. Il quarto comma dello stesso art. 117, inoltre, prevede che sulle materie di non esclusiva competenza statale o non sottoposte a legislazione concorrente, possano legiferare soltanto le regioni.
A questo punto, se un’entità politica deve assolvere a compiti sempre più vasti, divenire alleata dei cittadini e capace di operare direttamente allo stesso livello territoriale presso il quale essi stessi si trovano, sarà anche necessario dotarla delle risorse economiche e finanziarie indispensabili non solo per prendere delle decisioni, ma pure per renderle effettive all’interno dell’universo socio-economico che le sarà affidato. In Italia l’approvvigionamento di risorse destinate agli enti territoriali subordinati allo Stato, quali le regioni, le province o i comuni, si è sempre realizzato mediante il sistema dei trasferimenti: il gettito fiscale, in sostanza, era indirizzato allo stato centrale, il quale provvedeva poi a far giungere agli organismi territoriali inferiori i mezzi ritenuti necessari allo svolgimento delle funzioni loro attribuite. Epperò il criterio di determinazione delle risorse gestite dagli organismi politici decentrati consisteva nel riconoscere loro fondi sufficienti a coprire le spese che essi stessi dichiaravano: è questo il cosiddetto criterio della spesa storica, meccanismo che di certo non incentiva all’efficienza – giacché più un amministratore spende, più riceverà ­– e soprattutto genera un’ingiustizia redistributiva difficilmente giustificabile, poiché per questa via le regioni più produttive, che contribuiscono maggiormente alle entrate fiscali, finiscono per partecipare proporzionalmente meno ai benefici da esse derivanti in termini di spesa pubblica.
Al contrario di quel che la stampa sovente suggerisce, questi temi non riguardano opinioni di natura politica: sin qui si tratta semplicemente di prendere coscienza di un problema, perché difficilmente si potrebbe definire giusto uno Stato che riconosca meno a chi contribuisce di più.
Dalla “spesa storica” ai “costi standard”: il cuore della riforma
Sotto l’impulso di una simile richiesta di giustizia ­– del tipo che Aristotele avrebbe definito “giustizia distributiva” ­– e ancora assecondando quella filosofia politica che auspica una maggiore autonomia degli enti territoriali subordinati allo Stato, il Parlamento ha delegato al Governo i poteri per attuare un federalismo fiscale che ruoterà su un nuovo meccanismo di attribuzione delle risorse finanziarie agli enti locali.
In base al primo blocco di decreti approvato dall’Esecutivo, infatti, a partire dal 2012 si provvederà a riporre in soffitta il vizioso criterio della spesa storica, per approdare, già nel 2017, alla definitiva affermazione del criterio dei “fabbisogni standard”. Questo canone muove in sostanza dall’assunto che le risorse da destinare agli enti territoriali non vadano parametrati sulle loro spese, ma sul costo oggettivo dei servizi resi al cittadino; così, per parlare della sanità ­– una delle fondamentali voci di uscita del bilancio pubblico, finanziata attraverso l’IVA­ – si giudica inammissibile che per un’identica prestazione, consistente ad esempio in un’analisi del sangue, si riconosca una certa somma alla Lombardia, e magari il doppio alla Campania. Un apposito decreto attuativo, pertanto, affida ad una società di studi di settore il compito di determinare la spesa efficiente ­– valida sull’intero territorio nazionale, e per questo definita “standard” ­– per ogni funzione fondamentale di comuni e province.
Per un federalismo efficiente: meccanismi premiali e sanzioni
Il lettore interessato all’argomento reperirà facilmente, sulla stampa specialistica, informazioni dettagliate circa gli strumenti tributari ­– si tratta per lo più di addizionali e quote di compartecipazione regionale su imposte già esistenti ­– attraverso i quali gli enti locali potranno direttamente trattenere aliquote del gettito proveniente dal loro territorio. Qui preme solo mostrare come la logica complessiva dei decreti attuativi del federalismo fiscale tenda a delineare un sistema di ripartizione delle risorse pubbliche in grado di stimolare la competizione tra enti territoriali omologhi ­– e quindi una corsa all’impiego virtuoso ed efficiente dei mezzi disponibili – attraverso meccanismi di controllo sull’esercizio delle nuove autonomie. Si pensi al caso dell'IRPEF, la cui percentuale manovrabile da parte dei presidenti delle regioni, oltre ad essere sottoposta a specifici “tetti”, vivrà in rapporto di costante simbiosi con l’IRAP: dal 2014 potranno infatti ridurre e azzerare quest’ultima imposta solo le regioni che non avranno ecceduto con gli aumenti dell’IRPEF. L’autonomia, pertanto, in qualche modo si autoalimenta: ne conserverà e ne otterrà di più chi la saprà gestire meglio.
Lo stesso decreto presenta anche numerosi meccanismi premiali: il primo e più macroscopico  prevede che l’ente che riesca a spendere meno delle risorse ad esso destinate in base al criterio dei costi standard, potrà trattenere il surplus; fermo restando, naturalmente, che il livello essenziale delle prestazioni pubbliche ­– cioè il minimum, quantitativo e qualitativo, di un dato servizio, al di sotto del quale gli enti locali non potranno scendere ­– sarà determinato una volta per tutte con legge dello Stato.  
I decreti attuativi, inoltre, apprestano misure punitive nei confronti degli amministratori incapaci: il “governatore” che mandi “in rosso” la propria regione rischierà la rimozione dall’incarico, andando pure incontro ad un taglio dei rimborsi delle spese elettorali destinati alla lista che l’aveva sostenuto.
Per le ipotesi di definitivo dissesto dell’ente amministrato, la riforma non esita a delineare un vero e proprio “fallimento politico” a carico di sindaci e presidenti di provincia giudicati responsabili dalla Corte dei Conti: le sanzioni saranno l’ineleggibilità decennale e l’interdizione dalle cariche detenute presso gli enti pubblici.
Le contromisure ai rischi di sperequazione
Certo, il pericolo di disuguaglianze è dietro l’angolo, e sarebbe ingenuo nascondersi che qualora il federalismo fiscale venisse improvvidamente applicato senza gradualità né contemperamenti, finirebbe probabilmente per alimentare il divario tra nord e sud, minacciando persino l’unità nazionale, giacché le disparità assurgerebbero al rango di logica di sistema. Proprio per questo, la riforma oggi in fase di attuazione prevede anche dei meccanismi di compensazione degli squilibri: onde evitare che il reinvestimento sul territorio di provenienza dei capitali prodotti dalle regioni più ricche ­– e la conseguente sottrazione di parte degli stessi fondi a quel che è stata sin qui la loro destinazione, e cioè il ripianamento del debito delle regioni meno virtuose ­– inneschi un meccanismo perverso per cui i territori opulenti continuino a crescere e quelli poveri s’impoveriscano sempre più, saranno costituiti appositi fondi perequativi in favore di regioni, province e comuni più deboli.
Queste, per così dire, le buone intenzioni della riforma; permane ovviamente il rischio che la sua concreta attuazione frustri le aspettative, privilegiando le mire speculative di una parte del Paese a scapito dell’uguaglianza dei diritti e delle opportunità tra tutti i cittadini. Si tratta di una minaccia concreta che alimenta paure diffuse, le quali rischiano, a loro volta, d’imbrigliare ogni afflato riformatore, condannandoci all’immobilismo; sarebbe meglio esorcizzare queste paure con l’interesse e la partecipazione: nella fattispecie seguendo attentamente le diverse tappe dell’attuazione della riforma, e poi attivandosi affinché la propria voce giunga agli organismi politici decentrati, i quali saranno dotati di poteri e autosufficienza sempre crescenti. Il federalismo fiscale, potenziando le autonomie, promette, tra le altre cose, di dare maggior peso ai singoli: la defezione o il disinteresse da parte nostra sarebbero perciò la colpa più grave.  

                                                                                                                                   Marco Giorgetti       
    

sabato 1 gennaio 2011

"La costituzione materiale, questa misconosciuta"

Pubblicato su "Il Consulente Re" on-line di Novembre 2010



Fino a qualche mese fa si parlava in continuazione di “costituzione materiale”. Pregiato strumento concettuale concepito dalla nostra migliore dottrina costituzionalista, quest’espressione veniva utilizzata dai politici a mo’ di orpello dialettico – esibito in contrappunto alla nozione di “costituzione formale”, cioè quella scritta – utile, alla bisogna, ad accreditare pratiche irrituali, e persino ad affermare l’avvenuta cristallizzazione di fantomatiche consuetudini contra legem.    

Anche in democrazia, del resto, la politica si serve dei propri mezzi come può, talvolta con lungimirante virtù, talaltra con egoismo miope, badando soprattutto al proprio tornaconto, come se le sorti di chi governa potessero prescindere dal pubblico consenso. A volte proprio l’origine democratica della legittimazione del potere può favorire il diffondersi di quell’ipocrisia di Stato che va sotto il nome di demagogia. E non c’è demagogia che non contenga un pizzico di populismo, perché i desideri e i malumori dell’elettorato sono spesso suggeriti – o addirittura indotti – dalla stessa classe politica, che dovrà poi far mostra di saperli interpretare. Questa rischiosa deriva dei sistemi democratici si manifesta sovente attraverso l’utilizzo improprio, all’interno del dibattito pubblico, dei concetti giuridici fondamentali: soprattutto dei concetti teorici, giacché intorno al diritto positivo i margini di manovra risultano inferiori, tra l’altro grazie a meccanismi di garanzia indipendenti dal potere politico – e le ragioni di tale indipendenza si comprendono meglio proprio in quest’ottica.
Ma poiché l’incombente attualità di questi temi espone chi li affronta ad un invincibile sospetto di faziosità – così tra l’altro sottraendo vigore all’intero ragionamento – lasciamo da parte i profili politici del problema, e veniamo subito agli aspetti giuridici.

Costantino Mortati e la costituzione in senso materiale 

La promulgazione della Costituzione
La nozione di costituzione materiale è dovuta all’elaborazione di Costantino Mortati (1891-1985), insigne costituzionalista italiano, tra l’altro membro dell’Assemblea costituente e della Commissione dei 75, incaricata, all’indomani del referendum del 1946, di elaborare il progetto di Costituzione repubblicana. Precursore di un approccio dinamico al fenomeno giuridico, che costituirà la cifra del costituzionalismo del ‘900 – mai più, successivamente, si analizzerà un testo costituzionale a prescindere dal contesto politico e sociale nel quale esso è destinato a trovare concreta applicazione –  Mortati già nel 1940, ne “La costituzione in senso materiale”, accredita un ideale di Carta Costituzionale da costruire ed interpretare come rappresentazione formalizzata dei rapporti di potere effettivamente esistenti tra i diversi attori sociali, quali i partiti, la magistratura, i sindacati, le associazioni dei datori di lavoro, le istituzioni religiose e le organizzazioni laiche. Tramontato il monopolio sulla politica esercitato dallo Stato liberale – modello a suo tempo teorizzato dai vari Machiavelli, Bodin e Hobbes, uno schema che per alcuni versi ripeteva gli stilemi del pensiero aristotelico, per il quale pòlis e politica risultano inseparabili – Mortati si preoccupa di riuscire a formalizzare adeguatamente il possibile scollamento tra legge scritta e legge applicata – il cosiddetto diritto vivente – tipico di una società in cui il conflitto sociale risulta esteso a tanti e diversi attori, ciascuno dei quali è in grado, benché in diversa misura, di far sentire le proprie ragioni, riuscendo potenzialmente ad incidere sul nuovo rapporto di forze che sortirà da ciascuno scontro. A ben guardare, infatti, anche nuove leggi, una nuova giurisprudenza, un nuovo contratto collettivo o nuovi atti dell’esecutivo possono configurare una costituzione inedita dello Stato – una costituzione di fatto, com’è ovvio – teoricamente la più distante e scollegata dal testo della Costituzione scritta.

La complessità nell’ordine democratico: la costituzione come cantiere
La causa profonda di un siffatto pericolo coincide tuttavia con il principale pregio di una costituzione realmente moderna, e cioè con la sua effettiva capacità di dare attuazione al principio democratico, garantito dal dogma della separazione tra i poteri. A conferma di ciò si può notare che il meccanismo, ben più schematico, dello Stato liberale funzionava egregiamente all’interno di un’organizzazione statuale nella quale il potere politico era appannaggio esclusivo di una sola classe sociale, la quale spesso reggeva lo Stato dopo averlo in qualche modo eretto con le proprie mani, ad esempio attraverso una rivoluzione.
La democrazia, in sostanza, importa complessità; essa addirittura riposa su questa complessità, poiché la logica inclusiva, intrinseca ad ogni dialettica sociale, genera già sul piano quantitativo il moltiplicarsi delle voci legittimate a partecipare; per non dire della macchinosità degli strumenti necessari a governare lo svolgersi del dibattito, indispensabili affinché il dialogo non si trasformi in sterile baccano.    
Secondo questo criterio evolutivo, la Costituzione non è tanto la madre di tutte le leggi, ma piuttosto la figlia dello stato di fatto capace di produrre un cambiamento della costituzione materiale, rivelando che i gruppi d'interesse meglio rappresentati dalla Costituzione scritta sono divenuti ormai incapaci di difendere la “loro” Costituzione. Si tratta di uno sguardo sul fenomeno costituzionale assai innovativo e disincantato, del quale tuttavia non si possono negare le indubbie qualità euristiche.

Fenomenologia e funzione del partito politico: la socializzazione dello Stato
Si può dire che allorché l’unità politica non fu più intrinseca alla statualità – perché, come detto, non più garantita da una sola classe sociale egemone, che era riuscita ad affermare come costituzione il suo progetto di società – fu necessario costruirla a partire dalla società, cioè dall’esterno dello Stato, perché quest’ultimo non era più l’unità politica, ma un mezzo per realizzarla. Ed ecco, allora, che secondo la teoria della costituzione materiale di Costantino Mortati, il partito costituisce il centro extra-statale di aggregazione delle istanze sociali, e perciò, al contempo, organismo di semplificazione e di direzione politica. La costituzione materiale risulta perciò definibile come un’unità raggiunta attraverso la vittoria di una parte degli interessi sociali su tutti gli altri; essa incarna l’ideale del solo partito politico dominante. Ebbene, l’integrazione, resa possibile dall’azione dei partiti, tra istanze sociali e indirizzi politici della nazione, genera quella socializzazione dello Stato che costituisce la nota distintiva e la principale innovazione della speculazione del Mortati.

La costituzione nel suo sviluppo dialettico
Secondo questo approccio, il concetto di costituzione materiale – ben lungi dal costituire un polo conflittuale che minacci continuamente d’insidiare il vigore della Costituzione scritta – vale a descrivere, probabilmente assai meglio di ogni altro, il faticoso percorso dialettico attraverso il quale la Costituzione in senso formale trova attuazione. La vita di un testo costituzionale è infatti un percorso accidentato, le cui fasi risultano tutte caratterizzate dal sigillo della opposizione – poiché l’ordine ideale che essa descrive a parole necessita, dopo esser stato concepito, quasi di un nuovo parto, non meno faticoso, per incarnarsi nelle strutture dell’ordine sociale.
Una Costituzione sarà interpretata, permeerà di sé l’intero ordinamento statuale e finirà un giorno per manifestare qualche crepa, qualche insufficienza; oppure sarà necessario mettervi mano semplicemente per restaurarla, onde riportarla, come si suol dire, “al passo con i tempi”. E giacché una Costituzione riformata, quanto al suo aspetto esteriore, altro non è che una nuova Costituzione in senso formale, si comprende, finalmente, che la costituzione materiale è semplicemente la Costituzione applicata, la stessa Costituzione formale che nutre dal proprio interno ciascuna delle strutture dello Stato, conferendo loro armonia ed unità.
Alla fin fine, gli aggettivi “formale” e “materiale”, applicati ad una costituzione, non indicano due momenti logicamente o cronologicamente distinti della sua esistenza, ma piuttosto due diversi aspetti della sua natura. Per comprendere appieno tale distinzione sarà utile far riferimento alle famose quattro cause di Aristotele: tra di esse, come si ricorderà, figurano per l’appunto la causa formale e la causa materiale, e si ricorderà pure che ciascun ente della realtà ha bisogno di entrambe per essere quel che è. Ad esempio la statua di Apollo – per evocare il classico esempio che si faceva al liceo – è composta tanto dal marmo, che ne costituisce perciò la causa materiale, quanto dalla figura complessiva del dio delfico. La sola immagine del dio greco resterebbe una pura idea se slegata dalla materia che gli dà corpo; parimenti la sola materia, senza forma, altro non sarebbe che un blocco di marmo amorfo. Ebbene, allo stesso modo, una pura Costituzione in senso formale è solo un libro inerte, al più descrittivo di un ordine ideale; così come una costituzione in senso materiale che pretendesse di prescindere da un organico progetto del suo funzionamento – quand’anche di natura meramente consuetudinaria, come accade in Gran Bretagna –  finirebbe per rivelarsi un gratuito esercizio di anarchia.
Costituzione in senso formale e costituzione in senso materiale non sono che due facce della stessa medaglia; pretendere che la seconda prevalga sulla prima si palesa esercizio ingenuo o, al più, malizioso; e così altrettanto ingenuo sarà arroccarsi sulla prima a guisa di difensori della patria, illudendosi che ciò basti a soffocare gli aneliti del diritto vivente.

sabato 20 novembre 2010

"Laicamente laici": riflessioni sul concetto di laicità

Pubblicato su "Il Consulente Re" on-line  di Gennaio 2010



Fu Robert Musil, nel suo sferzante cinismo, ad evocare il tarlo di una pericolosa deriva autodistruttiva che gli ideali sempre coverebbero nel proprio intimo, quasi si trattasse di un principio negativo di se stessi maliziosamente mescolato alla loro essenza, come una malattia congenita e mortale; egli affermò che “gli ideali hanno strane proprietà, fra le altre anche quella di trasformarsi nel loro contrario quando si vuol seguirli scrupolosamente”.
    Tra tutti i principi, le nobili ambizioni e le virtù che da questo rischio sono insidiati, nessuno si mostra più esposto al pericolo di una simile implosione dell’attuale concetto di “laicità”.
    Sarebbe lungo e noioso ripercorrere le diverse tappe storiche attraverso le quali il principio di laicità si è imposto come uno dei cardini costituzionali degli Stati di Diritto moderni; è necessario però riconsiderare criticamente un paio di aspetti che la frettolosa enfasi giornalistica finisce spesso per lasciare in ombra, consegnando alla coscienza sociale un’immagine un po’ distorta della nozione di laicità. Mi riferisco, in primo luogo, all’idea diffusissima, e ormai penetrata nel senso comune, che il principio di laicità dello Stato sia in buona sostanza una conquista delle rivoluzioni liberali, le quali lo avrebbero prima coniato e poi affermato a scapito delle mire teocratiche delle diverse Chiese europee, e in particolare di quella Cattolica.
    Ora, in relazione alla nascita, per così dire all’invenzione, del concetto di laicità, si segnala l’episodio, risalente addirittura al V secolo d.C., della lettera inviata da Papa Gelasio all’Imperatore Anastasio I, la quale recita: “Due sono, Augusto Imperatore, i poteri dai quali principalmente questo mondo è retto: la sacra autorità dei pontefici e la potestà regale“. Trascurando i dibattiti colti sorti intorno ad un’eventuale classificazione gerarchica tra l’auctoritas e la potestas secondo il diritto romano – la quale permetterebbe di ricondurre l’auctoritas al potere legislativo e la potestas all’esecutivo, così da insinuare il dubbio circa le mire teocratiche di Papa Gelasio – rimane il fatto storico dell’affermazione, da parte del Papa, di una radicale distinzione fra titoli di legittimazione all’esercizio di due poteri chiaramente separati già nella loro fase genetica: quello spirituale da una parte, quello temporale dall’altra. Né c’è da stupirsi del fatto che sia proprio un Papa a rendere una simile dichiarazione: nei Vangeli, infatti, il principio di laicità è sufficientemente delineato dalle parole di Cristo stesso, il quale non solo afferma: “Il mio Regno non è di questo mondo” (Gv 18, 36), ma ancor più esplicitamente, per ciò che qui ci riguarda: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (Mt 22, 21).

    Passando all’analisi dell’affermazione storico-giuridica del principio di laicità dello Stato, questa si può attribuire effettivamente, nella sua compiutezza, al successo delle rivoluzioni liberali in Europa, in particolare alla rivoluzione francese e a quella inglese. Non si può però trascurare il fatto che il concetto di laicità, così come formulato negli stessi sistemi giuridici dei Paesi che per primi lo portarono alla ribalta, presenta delle contraddizioni e delle criticità che sarebbe ingenuo e controproducente nascondere dietro i trionfalismi di un’ideologia allora solo antagonisticamente sbandierata .
    La laicità, infatti, è sempre stata declinata in Francia secondo schemi rigidamente separatisti, i quali se da un punto di vista meramente nomenclatorio hanno suggerito persino la definizione di “laicità negativa” – che rinvia quindi al disinteresse, da parte dello Stato, per la questione religiosa tout court – sul piano sostanziale hanno finito talvolta per mortificare le diverse espressioni della libertà di culto.
    Quanto all’esperienza inglese e all’effettività del principio di laicità all’interno di quell’ordinamento, basti pensare al fatto che ancora oggi la Regina, oltre al suo ruolo istituzionale interno, ricopre al contempo la carica di… Governatore Supremo della Chiesa Anglicana!
    Non esiste quindi, rispetto al principio di laicità, un assetto politico-istituzionale ideale, in grado di garantire, al contempo, tanto la massima libertà di culto e di manifestazione del credo religioso, quanto la netta separazione del potere temporale dalla sfera delle attribuzioni spirituali riservate alle autorità religiose.
    Superfluo riferire dell’ Italia: benché qui la notevole diffusione del cattolicesimo tra la popolazione sia indiscutibile, e la legislazione, sia costituzionale che pattizia in materia di Diritto Ecclesiastico, sia giudicata dagli studiosi tra le più equilibrate ed efficaci del mondo, restano sempre vive le polemiche circa l’affermata ingerenza della Chiesa Cattolica – che del resto ha il suo cuore pulsante a Roma – nelle faccende politiche.
    Questione annosa, quindi, quella della laicità dello Stato: se per secoli i “due soli” si sono contesi la supremazia nella guida degli uomini, nell’età moderna e persino nell’epoca contemporanea un millantato equilibrio formale tra i due poteri, fondato sulla separazione reciproca, non è stato sufficiente a garantire non solo la libertà di tutti – si pensi alle diverse nazionalizzazioni dei beni ecclesiastici operate in Europa e alle Leggi Siccardi  in Italia (1850-1855) – ma persino la pace tra i popoli – basti pensare agli accessi d’odio religioso che si sono manifestati in occasione delle guerre dei Balcani. 
    Oggi un’Europa incerta sulla propria identità è chiamata a resistere alle insidie del multiculturalismo, fenomeno di rimescolamento etico, religioso e culturale che rischia di minare le fondamenta delle nostre democrazie. Gli attacchi terroristici sferrati dai gruppi più integralisti di un Islam magmatico ed eterogeneo, col quale pertanto risulta difficile persino dialogare, non sono che la punta dell’iceberg di un conflitto che riguarda in realtà visioni apparentemente inconciliabili dei rapporti tra fede e diritto.

    Bisogna ammettere che in alcuni frangenti l’Occidente, soprattutto la vecchia Europa, è tentato di dolersi dell’incapacità di difendersi dalla penetrazione islamica secondo gli stessi schemi, giuridicamente e religiosamente monolitici, ai quali è informata la cultura musulmana. A volte si ha l’impressione che la mancata comprensione, da parte nostra, del contenuto profondo e autentico del principio di laicità possa indurci all’aberrazione di rimpiangere assetti politico-istituzionali arcaici e polverosi, dai quali ci siamo faticosamente e meritoriamente affrancati soprattutto grazie alle categorie giuridiche greco-romane e all’impronta giudaico-cristiana, entrambi cromosomi insopprimibili del nostro DNA culturale.
    Anche alcune vicende recentissime, ad esempio la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sulla presenza del crocifisso nelle aule scolastiche italiane e il Referendum sulla costruzione di nuovi minareti in Svizzera, ci hanno restituito l’immagine di un’Europa divisa e balbettante in tema di regolamentazione delle espressioni religiose.
    E’ innegabile che molte e molto divergenti tra loro sono le opinioni espresse da più parti in ordine al problema della convivenza tra le diverse fedi in Europa, e diversissime sono pure le ricette proposte per la sua soluzione. Dimostreremmo tuttavia di aver appreso assai poco dalla nostra storia se ci lasciassimo disorientare da questa palese molteplicità di vedute: la sfida attuale consiste piuttosto nel mostrarci in grado di rispondere alla violenza conformista e ghettizzante del fondamentalismo secondo il modello lungimirante, inclusivo e dialogante proprio del concetto genuino di laicità.                                          
    La parola “laicità”, d’altra parte, non affonda le sue radici nella distinzione canonistica fra clero e laicato, ma più genuinamente – più laicamente verrebbe da dire – nel sostantivo greco laòs, il quale sta ad indicare semplicemente il popolo della pòlis, una moltitudine policroma eppur capace di esprimere, attraverso le forme del diritto, una democrazia compiuta, fondata semplicemente sulle regole razionali della consuetudine e del buon senso – oggi potremmo dire del diritto naturale, purché si rinunci a quel poco di arroganza che talvolta si cela dietro quest’espressione.
    A ben guardare, infatti, gli anacronismi giuridici che l’integralismo islamico porta con sé si neutralizzano naturalmente al primo contatto con la civiltà del diritto: il reato d’apostasia, la subordinazione della donna e la poligamia, solo per fare degli esempi, non sono già di per sé in contrasto con il principio d’uguaglianza, con la libertà di pensiero e di coscienza? In relazione a simili distorsioni del sistema giuridico islamico – spesso affetto dalle categorie passatiste di una morale religiosa da reinterpretare – l’evocazione delle nostre categorie religiose e l’aspirazione ad un recupero dell’orgoglio cristiano possono suonare vagamente strumentali e inautentiche, cioè in fondo clericali: l’opposto di una schietta laicità.
    Del resto la logica, realmente laicale, dell’astensione dall’esercizio di un giudizio di matrice identitaria è profondamente radicata nel Vangelo, soprattutto nella critica al fariseismo; almeno questa a me pare la principale indicazione del “chi è senza peccato scagli la prima pietra” (Gv 8,7).
    La via del dialogo aperto, accompagnato da una doverosa intransigenza sui principi d’uguaglianza cui sappiamo di non poter abdicare, manifesta di per sé la profondità delle nostre radici culturali, che attingono inevitabilmente la propria linfa dall’humus perenne del diritto e della ragione, cioè in fondo dai concetti di libertà e di carità. Sono queste le grandi strutture della cultura occidentale dalle quali non possiamo non trarre il coraggio necessario per affrontare le sfide del futuro: a fronte di quest’abissale sapienza, per sempre inscritta nella nostra identità, le distinzioni effimere tra clericali e laicisti ci condannano ad una divisione interna che c’indebolisce proprio nella misura in cui ci priva della lucidità di avere ben presente chi siamo davvero.
    In questo senso lo stesso concetto di laicità ha bisogno oggi di essere laicamente reinterpretato, cioè rielaborato con una maturità che ci renda capaci di ricollegarlo alle nostre origini, alla nostra forza, e non alle nostre debolezze, troppo spesso dovute ad un’incomprensibile tendenza alle differenziazioni bigotte e ai conflitti fratricidi.